venerdì 2 aprile 2010

La sofferenza

La sofferenza

La sofferenza del corpo e dell’anima mi hanno accompagnato entrambe in tutta la vita, a volte separatamente, a volte insieme. La malattia fisica si è spesso sommata a un lutto o a un abbandono. Ho sempre avuto la sensazione di abitare una “casa” fatiscente che necessita di una manutenzione continua. Non si fa in tempo a riparare il tetto che crolla il pavimento, si puntella una parete salta l’impianto idraulico. E spesso fanno tilt due o tre cose contemporaneamente e allora mi prende una sorta di disperazione e di impotenza e la voglia di abbandonare questa “casa”, che ha troppe cicatrici e rattoppi, e forse non ha più senso spendere tanta energia e tempo per tenerla in piedi.


È cominciato tutto da bambina. Mia madre mi diceva che bastava una nuvola in cielo per farmi ammalare. Ricordo un tavolo operatorio. Sulla mia testa una grande luce circolare. Poi appare un libro enorme che comincia a girare e ad ogni pagina compare il volto di un medico o di una infermiera. Poi una bicicletta passa sulla mia pancia. A quell’ epoca non esistevano gli anestetici moderni; c’era la maschera di etere che dava un’arsura terribile. Per tre giorni mi proibirono di bere: la ferita era aperta e così rimase per circa un mese. Urlavo per il dolore e per la sete e tiravo i capelli a mia madre: non capivo perché fosse così crudele da negarmi l’acqua. Lei mi passava un po’ di cotone bagnato sulle labbra riarse e mi diceva: “Senti i rumori? Stanno facendo dei lavori. L’acqua non c’è; torna fra tre giorni”. Avevo sette anni ed era Natale.



Desiderare di morire

Quando molti anni fa sono stata ricoverata più volte in ospedale, mio figlio mi veniva a trovare e mi portava i suoi disegni colorati. Sotto ci scriveva “Alla super mamma”. Aveva sette anni. Appendevo quei fogli sul muro, e questo mi dava la forza di continuare. Mi ricordo una notte. Ero sola in casa con mio figlio. Avevo dolori atroci alla schiena, mi ero alzata per prendere un bicchiere d’acqua. Ad un certo punto mi sono ritrovata per terra, in ginocchio, mentre dicevo piangendo: “Dio, fammi morire”. Eppure, sono sicura, stavo pensando: “Dio, fammi guarire”. C’è stata una dissociazione mentale tra il mio pensiero e le mie labbra. Ero arrivata a uno stato tale di saturazione dei farmaci che anche gli analgesici non mi facevano più effetto, anzi mi facevano l’effetto contrario. L’unica cosa che mi dava la forza di andare avanti, che mi teneva in vita, era il pensiero di mio figlio che dovevo accudire, amare, sostenere. Se fossi morta sarebbe rimasto completamente solo.


Era soltanto l’esasperazione della sofferenza: invocavo la morte, pur di non soffrire ancora. E nel Corano il profeta Maometto invita i fedeli a non desiderare mai la morte ma a pronunciare questa preghiera: “Signore, tienimi in vita finché la vita è un bene per me, e fammi morire se per me sarebbe meglio morire”.


Come si fa a capire quale è la volontà di Dio? Ma un cristiano non deve augurarsi la sofferenza per imitare il Cristo, per purificarsi? Anzi non ci sono stati santi che pregavano di ricevere la prova della sofferenza? Si può diventare santi anche senza soffrire atrocemente?


In tutti questi anni mi sono sempre sentita dire dagli altri che dovevo considerarmi fortunata, perché le persone che soffrono sono più vicine a Dio. E io mi sono sempre chiesta: Ma se Dio non è vicino alle persone che soffrono? Se uno non sente questo sollievo interiore, questa presenza divina che ti dà la forza di continuare? I santi avevano la fede, per questo potevano superare tutte le afflizioni, tutte le prove.


San Francesco non vedeva i suoi malanni. La fede ti dà la forza di andare avanti, altrimenti c’è soltanto la disperazione. Yogananda diceva che si può vivere con un paradiso interiore, dovunque andiamo, se riusciamo a vivere nella gioia spirituale che ci viene da un’assidua e profonda meditazione.


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