venerdì 30 aprile 2010

Santorini: la visione delle tempeste solari



Nei primi giorni di settembre del 1983 ero in vacanza nell’isola greca di Santorini, un’isola vulcanica bella e affascinante. Ero in vacanza con una amica. Dopo molte difficoltà eravamo riuscite a trovare una casa in affitto vicino al mare. L’edificio era ancora in costruzione, mancava il tetto. Una scala portava su una specie di terrazzo che probabilmente sarebbe diventato l’anno successivo un altro appartamento da affittare.


Un giorno decisi di andare nella parte alta della città, forse per compere o per sbrigare formalità per il ritorno. Il sole non era allo zenit, erano forse le undici del mattino o, più probabilmente, le due, tre del pomeriggio. A un certo punto alzai gli occhi e vidi qualcosa che oggi posso definire uno spettacolo incredibile ma che all’epoca mi parve del tutto naturale: il sole era una palla rosso fuoco che galleggiava nel cielo ed emanava vapori gassosi; una corona incandescente circondava l‘astro, attorno alla sua circonferenza apparivano e scomparivano nel magma lingue di fuoco altissime ( quanto la linea che unisce il centro alla periferia), bolle di fuoco si dilatavano e si restringevano. Tutto in un vortice continuo. Uno spettacolo imponente, affascinante. Come se fosse la cosa più normale del mondo, dopo un periodo che non potrei quantificare, da pochi secondi a un minuto, continuai la mia passeggiata.


Non confidai a nessuno questa mia esperienza e non mi chiesi se anche altri turisti avessero ammirato lo stesso fenomeno. Mi sembrava una cosa di poca importanza e il ricordo venne semplicemente rimosso. Dopo molti anni, rivedendo i miei appunti di viaggio, mi sono chiesta perché quella visione non mi avesse danneggiato la vista. E’ possibile guardare a occhi nudi un fenomeno simile? Forse sì, in circostanze speciali, probabilmente uno scienziato saprebbe trovare una spiegazione logica. Le immagini della Nasa, pubblicate nei giorni scorsi sui quotidiani on line, riprese dall’ultimo satellite in orbita, hanno riportato alla luce quell’ esperienza a cui dedicai anche un disegno: il sole di Santorini che vibrava e pulsava come
un cuore in piena attività.


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mercoledì 28 aprile 2010

Meera e la via del bhakti yoga



Nel 1990 sono tornata in India con il proposito di visitare la città di Chittor. Volevo vedere, la tomba di Meera Bai, mistica indiana, poetessa, devota di Krishna, dalla vita turbolenta e affascinante . Fu un viaggio lungo e faticoso con un taxi vecchio e rumoroso.


Meera, principessa di Chittor ( Rajasthan) nacque nel 1498, anche se non c’è certezza assoluta sui dati biografici. La sua storia si deduce dai poemi autobiografici , dal lavoro dei devoti e dagli eventi storici. Era figlia di Ratan Singh e nipote di Rao Duda, signore di Merta, potente stato indipendente del Rajastan. La madre morì quando aveva appena due anni. Il nonno si prese cura della sua educazione e influì sulle sue tendenze spirituali. La sua educazione prevedeva la conoscenza delle scritture, poesia ,musica ma anche esperienza nelle arti militari che svilupparono in lei, coraggio, perseveranza e determinazione.

Era una ragazza bellissima, con una voce melodiosa. La sua fama era nota anche al di fuori della sua città. Rana Sanga, il potente re di Mewar, la chiese in sposa per il maggiore dei suoi figli, il principe Bhojraj. Quando Meera compì 18 anni, nel 1516, fu celebrato il matrimonio e si narra che l’intera città di Merta fu decorata come una sposa. Dopo dieci anni, presumibilmente tra il 1525- 26 , il principe Bojiraj morì in battaglia.

Libera da impegni familiari (non aveva avuto figli), Meera si dedicò completamente a Lord Krishna, incarnazione di Vishnu. Nel suo cuore si era sempre considerata sua sposa e divenne devota del santo Ravidas, un guru di casta bassa. Lei ripeteva : “ Senza incontrare il Signore non posso vivere, ma senza il Maestro non posso realizzarlo”.


La leggenda narra che andava in estasi mentre cantava le lodi di Krishna . Si fece ben presto la fama di una principessa intossicata dall’amore di Dio e molti devoti cominciarono a seguirla, mentre la famiglia del marito e l’alta casta dei brahmini la criticavano ferocemente e arrivarono perfino a calunniarla. Alla morte del suocero nel 1527 succedette al trono il cognato. Una notte, credendo di trovare Meera in compagnia di un uomo, il cognato entrò nella sua stanza , ma la vide in estasi, soffusa di luce, e fuggì via spaventato. Per impedire che Meera incontrasse il santo Ravidas la fece rinchiudere in un’ala del palazzo reale, ma Meera riusciva sempre miracolosamente a fuggire.

Con la morte del cognato non finirono i guai per Meera. Il nuovo re, non sopportando la sua indipendenza, decise di ucciderla con una coppa d’oro avvelenata. In uno dei suoi poemi Meera ringrazia Krishna per aver tramutato il veleno in nettare. Si narra che anche il famoso imperatore Moghul , Akbar, incontrò in incognito Meera per ascoltare di persona le sue melodie e la sua voce ispirante. Tentarono una seconda volta di ucciderla inviandole un cofanetto che conteneva un prezioso braccialetto e una vipera velenosa. Ma anche questa volta si salvò.

Dopo molte altre disavventure e lotte intestine all’interno della famiglia del marito, Meera si rifiutò di tornare a Chittor, sua città natale, e cominciò a viaggiare di città in città per diffondere il suo messaggio di amore e devozione a Lord Krishna. Morì presumibilmente nel 1547 di morte naturale. Altri storici spostano la data tra il 1563 e 1573.

venerdì 23 aprile 2010

Le poesie di Meera





Tramandati in un primo tempo attraverso la tradizione orale, i poemi di Meera furono trascritti successivamente. Centinaia di poesie, espressione della pura bhakti (devozione). Ne proponiamo alcune.




Vieni, Amato Signore

Concedimi il tuo darshan

Lontano da te

Non posso più vivere.

Come un loto senz'acqua,

Come una notte senza luna,

Sono io la tua diletta

Senza di Te, o Signore.


Io vivo del ricordo del tuo Nome.

Il mondo mi deride, o Signore dalla carnagione celeste, [Krishna ]

A causa del mio amore per te.

Alcuni mi chiamano pazza.

Altri pensano che ho portato tutta la mia famiglia alla rovina.

Alcuni dicono che io sono come il profumo dell'incenso,

Assorta nel Nome dell'Amato.

Affilata è la lama della mia devozione

Sì da recidere il cappio della morte.

O Signore di Mira tu innalzi le montagne.

Tu mi affoghi nell'oceano del tuo Nome.



In fondo al mio cuore il tuo Nome ha trovato riposo.

Per il tuo amore, o Unica Bellezza,

Sono costretta a sopportare le calunnie del mondo.

Alcuni mi lodano perché ti amo,

Altri dicono che ho infamato il nome reale che porto.

Oh! sono ebbra del nettare del tuo Nome,

Incurante degli insulti degli stolti.

Seguire il sentiero della devozione è come

Camminare a piedi nudi sulla lama di un rasoio.

Eppure ci cammino volentieri.

Poiché, dice Meera, beato è colui

Che si è tuffato nell'oceano di nettare del Suo Nome.



lunedì 19 aprile 2010

Sri Aurobindo









Uno dei piu' grandi poeti e filosofi indiani. Era nato a Calcutta il 15 agosto 1872. A sette anni il padre, medico, lo mandò a studiare in Inglilterra. A vent'anni tornò in India con la laurea presa a Cambridge. Dopo alcuni anni di insegnamento si trasferì a Calcutta, dove si dedicò alla lotta politica per combattere il dominio britannico. Attività rivoluzionaria per la quale scontò due anni di prigione.Fondò un quotidiano politico. Il fratello fu condannato a morte, poi al carcere a vita. Aurobindo riuscì a fuggire in tempo, raggiunse la colonia francese di Pondicherry, dove vi rimase fino alla morte, il 5 Dicembre 1950. Una volta a Pondicherry Aurobindo rinunciò a occuparsi di politica e si dedicò interamente a un'altra avventura, quella della conoscenza."Bada che il tuo altruismo non uccida l'anima altrui", diceva. Non credeva nella beneficenza ma nell' evoluzione delle coscienze.


Aurobindo :" Bisogna avere un cuore calmo, una volontà incrollabile, una completa abnegazione e mantenere gli occhi continuamente fissi su ciò che é al di là, per vivere senza scoraggiamento in un'epoca come questa, che é veramente un periodo di decomposizione universale".

Auroville: un'utopia?



Ha una superficie di 20 chilometri quadrati, si trova nello stato del Tamil Nadu, a sud di Madras, a pochi chilometri da Pondicherry (ex colonia francese). Fu inaugurata il 28 febbraio 1968. Giovani di 125 nazioni e di tutti gli stati indiani posero una manciata di terra del loro paese in un'urna posta vicino al Matrimandir, simbolo di questa città del futuro dedicata alla comprensione universale. Il Matrimandir è una gigantesca sfera che contiene nel suo ventre una sala di meditazione, con al centro un enorme globo di vetro. La cellula umana e l'universo; il microcosmo e il macrocosmo. Progettata da un team di architetti italo-francesi è cresciuta negli anni secondo un progetto architettonico che la vede come una galassia in espansione, divisa in quattro zone che corrispondono alle quattro attività dell'uomo: abitare, istruirsi, lavorare ed esprimersi.


Come vivono gli aurovilliani? Alcuni fanno gli insegnanti, altri lavorano in una fabbrica di computer, Aurelec, altri sono impegnati in progetti di agricoltura biologica. In una città del futuro non potevano mancare le energie alternative. Si segue anche un piano di forestazione. Ma il punto chiave della ricerca é l'educazione, perché alle future generazioni é dato il compito di realizzare Auroville. Molte le scuole e i centri culturali. Oltre alla ginnastica si insegnano anche yoga, danza e musica. Bisogna cominciare a trasformare sé stessi per poi trasformare il mondo, è il motto di Auroville.


Molti pionieri di questa città ideale uscivano dal '68. Avevano un'età media tra i venti e i trent'anni, una gran voglia di cambiare e tanti ideali. Oggi il periodo storico è completamente diverso: c’è stato il crollo del comunismo e poi la grave crisi del capitalismo. La città ideale, vagheggiata da Platone e Tommaso Campanella, può diventare realtà? Auroville rimane un'utopia?"





La carta di Auroville


Su come dovesse essere organizzata Auroville, la Mère disse:"


"La terra ha bisogno di un posto dove gli uomini possano vivere al riparo di tutte le rivalita' nazionali, di tutte le convenzioni sociali, di tutte le moralita' contraddittorie e di tutte le religioni antagoniste; un luogo dove liberi da tutte le schiavitu' del passato,gli uomini possano consacrarsi totalmente alla scoperta e alla realizzazione della Coscienza Divina di cui sono una manifestazione. Auroville vuole essere tutto questo ed e' a disposizione di tutti coloro che aspirano a vivere la verita' del domani."

La Mère



Pochi ricordano il suo nome reale, Mirra Alfassa. Per tutti i seguaci di Aurobindo, lei divenne subito la Madre, che per gli indiani vuol dire l'Energia, la Shakti. Nata a Parigi il 21 febbraio 1878, la Mère, si stabilì definitivamente a Pondicherry nel 192O, accanto ad Aurobindo, che aveva conosciuto quattro anni prima.


La Mère si dedicò interamente all'opera e al pensiero del grande mistico indiano. Nel 1926 Aurobindo rinunciò ad ogni attivita' pratica per chiudersi nella sua ricerca interiore e affidò l'intera gestione dell'ashram nelle sue mani. Aurobindo disse della Mère:" Senza di lei la mia opera non sarebbe stata possibile." La Mère morì a 95 anni nel 1973.


Incontro con Maggi (Pondicherry)




A Pondicherry ho incontrato Maggi Lidchi Grassi che per sette anni, dal 1966 al 1973, è stata la segretaria personale di Mère, la compagna di Aurobindo sulla via della realizzazione interiore. Punto di riferimento obbligato per tutti gli italiani che arrivano ad Auroville, Maggi era un'esile e dolce scrittrice francese, di discendenza Sefardita, moglie di un ingegnere fiorentino, Alberto Grassi, Natan. Fu lui a costruire le prime scuole a Udavi, un villaggio tamil vicino ad Auroville, a creare una casa di accoglienza per i bambini abbandonati, a fondare la rivista italiana " Domani", a creare una fabbrica di incenso che ora dà lavoro a molti indiani.

Migliaia di persone vengono ogni anno da ogni parte del mondo a Pondicherry,l'ex colonia francese, per rendere omaggio al Samadhi, la tomba di Aurobindo, per visitare l'ashram, e conoscere Auroville. I più interessati alla ricerca spirituale si fermano a Pondicherry, chi vuole partecipare alla sfida di creare una città ideale sceglie Auroville. Due entità separate, ma raccolte sotto un'unica filosofia, quella di Aurobindo e della Mére.
Abbiamo parlato a lungo con Maggi, soprattutto del suo rapporto con Mère.
“ Era un incontro d’amore tutti i giorni - ci disse- Facevo una vita molto ritirata, protetta molto interiorizzata, di meditazione, facevo qualche traduzione, poesie. Dopo la morte di Mère e di Natan, mio marito, la mia vita è cambiata molto. Non avevo bisogno di chiedere. Mère mi dava tutto quello di cui avevo bisogno. E’ stato un rapporto molto dolce, intenso , leggevo le lettere dei discepoli, rispondevo per lei. Lei ripeteva sempre la stessa cosa a tutti :” Arrendersi a Dio”. “Surrender”. Il nostro yoga si basa su questo. Ho vissuto 36 ore di sofferenza prima di arrendermi completamente. Qualcosa in me faceva resistenza, poi ho capito. Lasciare il mondo e vivere nell’ashram è stato facile, difficile raggiungere l’abbandono totale a Dio. Anche un granello di sabbia, se ci sei attaccato, ti fa soffrire. Ho detto a Dio: Fai tu. Tutte le mie azioni siano in accordo con la volontà divina. Ma Mère mi fece notare : A questa frase, per essere perfetta, manca una sola parola, spontaneamente, senza sforzo.”

domenica 18 aprile 2010

Dorothy Day: essere santi oggi

Nella chiesa cattolica non esiste la figura del Guru come viene inteso nell’induismo. Un maestro realizzato che ha l’incarico di guidarti nella ricerca spirituale verso Dio. Nel passato c’erano santi con un grande carisma come santa Chiara e san Francesco, considerato dagli indiani lo yoghi d’ Occidente. Alla carenza di vocazioni si aggiunge una carenza di santità. Giovanni Paolo II, durante il suo pontificato, ha beatificato centinaia di persone ma nessuna –secondo alcuni osservatori - aveva la statura spirituale di san Francesco.


Tutti gli esseri umani hanno la possibilità di evolvere spiritualmente, grazie a questa scintilla divina che è in ognuno di noi. Ma, a mio avviso, la vera santità è vivere! Essere santi significa vivere tutti i giorni questa vita, attraversare questo mondo, a volte perverso, diabolico, cattivo, senza esserne travolti, portandosi dietro le ferite fino alla fine.


Un esempio di santità vicina a noi è quella della giornalista americana Dorothy Day. Dorothy era una donna molto coraggiosa, una attiva pacifista, dedicò tutta la sua vita alla non violenza e alla solidarietà per i diseredati. Lottò contro la guerra in Vietnam, contro le tasse ingiuste, fondò a New York una comune nell’East Village, sulla Terza Strada, e nel 1933 un giornale, il Catholic Worker, venduto a 1 centesimo, che lei diresse fino alla sua morte, avvenuta l’11 novembre del 1980, a 83 anni. Il movimento da lei creato (e il giornale che ne era l’espressione), coniugava il forte impegno politico con le battaglie in difesa degli emarginati. Dorothy, espressione del pacifismo cattolico americano, fu controllata per tutta la sua vita dall’FBI e finì più volte in carcere. Le case del Catholic Worker, ora più di cento, sparse in tutto il mondo, offrono rifugio agli ultimi della terra. Dorothy si può considerare una Madre Teresa laica. La prima casa storica di St. Joseph, che fu anche la prima mensa dei poveri, fu chiusa dal sindaco Giuliani con l’intenzione di “ripulire “ la città.


L’arcivescovo di New York, il cardinale John O’Connor, affermò alcuni anni fa in un’omelia che gli sarebbe piaciuto vedere la santificazione di Dorothy Day. La sua causa di canonizzazione fu proposta nel 1983, osteggiata da molti cattolici conservatori per i “peccati” commessi da Dorothy prima della sua conversione al cattolicesimo, come la sessualità prematrimoniale e un aborto. Nonostante questo, Giovanni Paolo II, nel 2000, concesse all’arcidiocesi di New York di aprire la causa di canonizzazione conferendo a Dorothy Day il titolo di “serva di Dio”.


Bisogna però ricordare che la stessa Dorothy un giorno disse: “Quando cominciano a chiamarti santa vuol dire che non ti prendono più sul serio”.


giovedì 15 aprile 2010

Srinagar: una luce nel buio



Una epifania, così potrei definirla, risale al mio primo viaggio in Kashmir, nel 1982. Soffrivo moltissimo perché avevo due lutti da digerire: la morte di mio padre e la fine di un rapporto intenso, coinvolgente, il più importante della mia vita. Avevo un dolore lacerante al cuore, spaventoso. Mi svegliavo la notte con le lacrime agli occhi, con il cuscino bagnato perché, o sognavo mio padre o sognavo il mio ex. E ogni volta c’erano sempre mille difficoltà che rendevano i contatti difficili, impossibili. E io mi disperavo perché li vedevo scomparire tra la folla e non potevo più avvicinarli e dire loro ciò che mi era rimasto congelato nel cuore.


Mio padre era stato sempre molto severo con me, privo di affettività per un eccesso di pudore o per un malinteso senso di virilità. Soltanto poco tempo prima di morire si era ristabilito un rapporto affettuoso e così la sua scomparsa mi aveva lasciato un vuoto incolmabile, avevo perso quello che non avevo mai avuto e che avevo intravisto come possibilità. L’uomo che ho amato più di me stessa, alla fine avevo deciso di lasciarlo perché il rapporto era diventato per me troppo doloroso, distruttivo. Ne andava della mia vita. Qualche anno dopo, per altri motivi, si ripresentò la stessa condizione di sofferenza atroce, ma in quel caso ebbi la fortuna di incontrare Giovanni Paolo II, che mi fece il miracolo di togliermi il dolore al cuore.


Ero a Srinagar, dormivo in una house boat, stavo facendo, come tutte le sere, un sogno doloroso, quando mi svegliai improvvisamente. Ai piedi del mio letto c’era una figura luminosa, un ovale di pura luce, non aveva sembianze umane. Ma per quei pochi eterni istanti, che è rimasta lì davanti a me, ai piedi del letto, ho sentito una tale pace, una tale gioia, il mio cuore era diventato improvvisamente leggero. Poi questa figura luminosa si è spostata a sinistra, dove c’erano il muro e la porta, ed è scomparsa dalla mia vista. Mi sono subito girata a destra per vedere se la mia compagna di viaggio si fosse accorta di qualcosa, ma lei dormiva. Mi sono riaddormentata e ho ricominciato a piangere.


lunedì 12 aprile 2010

Il seminario di Vimala Thakar

Vi propongo una sintesi del seminario di Vimala Thakar (1984)

L’atto di vivere deve essere libero da ogni condizionamento mentale o schema. La coscienza è limitata (scelta, accettazione, memorizzazione) ed è un movimento continuo. Quando meditate sedete tranquilli, senza la volontà di rilassarvi, senza azioni mentali, senza voler cambiare. Per superare la sonnolenza durante la meditazione camminate lentamente nella stanza. Se avete sonno, dormite.


Il silenzio è una nuova dimensione di coscienza. Nel silenzio le energie vengono attivate . Non ci sono più né centro né circonferenza. La dimensione senza pensiero e senza spazio attiva energie qualitativamente diverse. Il silenzio, privo di pensieri, privo di attaccamenti del sé e dell’io, non è un’esperienza dell’ego, è una dimensione di coscienza.


La sofferenza è la continuità nel pensiero dell’evento negativo. Durante una conferenza di Krisnamurti un uomo seduto in sala si alzò e disse:”Tu parli di sofferenza. Intanto io sto morendo di cancro.” Krisnamurti rispose:”Tu non stai morendo di cancro. Stai in piedi. Siediti”.


Impara ad abitare con il dolore fisico senza cercare dagli altri pietà e comprensione e senza cadere nella depressione. Il dolore fisico non si può evitare ma quello psicologico sì. Se si crea una sofferenza psicologica si complica tutto. Non permettiamo al dolore fisico di entrare nella nostra mente. Così l’energia vitale del nostro corpo saprà autogovernarsi. La mente deve essere libera dalle tracce della memoria. Essere presenti in ogni momento. Guardare senza diventare parte dell’esperienza.


Se una persona mi ferisce mi porto dietro questa sofferenza e ad ognuno che incontro chiedo conforto e solidarietà. Più si è sensibili più si è vulnerabili. In un giorno potremmo essere feriti decine di volte. La memoria del dolore rende la vita un inferno. La meditazione ci aiuta a interrompere la sofferenza psicologica.


Dopo la morte il pensiero non muore. Le vibrazioni del pensiero si muovono nell’etere e vengono attratte da persone che hanno lo stesso feeling (futuro padre e futura madre) e ci si reincarna. Il pensiero è la coscienza del sè. Deve essere o completato o trasceso. Dopo la morte la vibrazione del pensiero non muta.


Il silenzio è un modo di vivere. La conoscenza di sé elimina la paura. Affrontare la realtà attraversare il dolore. L’esplorazione della verità porta dei cambiamenti metabolici. La paura è resistenza al mistero della vita. Quando entriamo nel silenzio entriamo nel mistero dell’Universo.


Percepiamo i fatti per quello che sono e viviamoli. Sia che siano piacevoli o spiacevoli, che ci portino dolore o gioia o successo. Non è importante. La qualità nell’atto di vivere è importante. La paura è una reazione dell’ego. Quando vi afferra date più spazio al corpo, ai suoi processi vitali, e poi riaffrontatela di nuovo. Il movimento, l’energia del pensare è una forza tremenda. Imparate ad osservare la rabbia, i desideri sessuali ecc. senza condannare, né voler cambiare. Quando li osserviamo senza giudicare, senza voler cambiare, questo aumenta la forza dell’attenzione. Ricordate questi tre concetti:


Vivere nell’eterno presente

Abitare la Verità, vivere nella Verità

La speranza rimanda al domani.


Meditazione, totale libertà, senza condizionamento, totale libertà dall’ego . La meditazione non è una fuga dalla realtà, né serve per avere sensazioni trascendenti. La meditazione è un’avventura di un cambiamento psichico, di una rivoluzione, e si può usare a vantaggio di tutte le razze umane, per cambiare i rapporti umani. Si può lasciare il cristianesimo per il buddhismo, ma se si sostituiscono schemi nuovi con quelli vecchi, si ha un’illusione di freschezza. Quando ci si sposta da un’ autorità all’ altra non si ricerca la libertà. La libertà è una ricerca personale.


Meditazione: totale abbandono dell’ego, completo rilassamento del sé. L’esplorazione della meditazione non richiede l’autorità di nessuno. No alle gerarchie anche spirituali. Nella vita spirituale ci deve essere un rapporto senza sfruttamento. Non bisogna stare alla ricerca di un guru. Iniziare l’avventura interiore, vivere la verità. L’incontro tra maestro e discepolo è un incontro tra due esseri sullo stesso piano. Lo sbocciare della comprensione è un evento. Il maestro è una persona che trascende l’ ego, il sé, con cui possiamo avere una comunicazione. La crisi del nostro tempo è nel centro della coscienza, della psiche.


domenica 11 aprile 2010

Vimala Thakar


Nel 1990 decisi di andare a trovare Vimala Thakar, una yoghini che avevo conosciuto a Roma e che mi aveva molto impressionato per la sua saggezza e immediatezza. Sapevo che il suo ashram si trovava in una città di montagna chiamata Monte Abu e così decisi di partire ma mi aspettavano molte sorprese. Fu un viaggio faticosissimo e lunghissimo. Cinque ore per andare e cinque ore per tornare su strade piene di voragini. Per due volte il tassista fu costretto a guadare un fiume con il taxi. La terza volta, per fortuna, si fermò in tempo. La strada diretta per Monte Abu, a causa dei monsoni, era crollata e in mezzo al fiume c’era un macchina in parte sommersa. Con la forte determinazione di raggiungere la meta, fui costretta a modificare il viaggio e aggirare l’ostacolo allungando di molto i tempi. Ma questo mi permise di vedere alcuni templi jainisti, molto belli, e poi ripartire.

Finalmente arrivai a Monte Abu, panorama stupendo, città deliziosa dall’aspetto pulito, con tanto verde e un lago. Chiesi più volte informazioni , ma di Vimala Thakar neanche l’ombra. Nessuno sembrava conoscerla, forse si era trasferita altrove, ma ormai era tardi, e bisognava tornare indietro. Il tassista, preoccupato , mi disse che la strada di notte era molto pericolosa per via dei briganti.

Alle 21,30, stremata, ero in albergo. E per chiudere una giornata pesante dovetti affrontare altri contrattempi, cambiai stanza tre volte : la prima aveva una finestra rotta, la seconda era senza acqua calda, e la terza senza aria condizionata. Dopo aver saltato il pranzo (solo quattro banane durante il viaggio) e la cena (nulla di gradevole), alle 23 finalmente andai a letto con le ossa rotte per dieci ore di taxi, ma dentro di me ero contenta, convinta che comunque ne fosse valsa la pena.

Vimala Thakar, discepola di Krishnamurti, nota in tutto il mondo per i suoi insegnamenti e per il suo impegno sociale, è morta l'11 marzo 2009.


sabato 10 aprile 2010

Suor Nazarena, eremita a Roma

Nel monastero delle benedettine sull’Aventino, a Roma, si trova l’angusta cella dell’anacoreta americana, suor Nazarena, dove è vissuta reclusa per circa quarantacinque anni, fino alla sua morte, nel 1990.


La storia di Giulia Crotta, figlia di emigranti italiani, nata nel Connecticut il 15 ottobre 1907 è davvero insolita e dimostra quanto può essere tortuoso e a volte doloroso il cammino interiore.


Laureata in lettere, scrittrice, musicista, fin da giovane aveva sentito la “chiamata”: “Vieni con me nel deserto!”, le aveva detto Gesù in una apparizione, ma quando lo raccontava ai suoi confessori rischiava sempre di essere considerata un ‘esaltata se non una pazza. Dopo aver fatto esperienza in alcuni conventi, Giulia Crotta parte per Roma dove trova finalmente il suo “deserto “ in una cella del monastero di Sant’Antonio d’ Egitto sull’Aventino. Praticava una dieta vegetariana rigorosa, il cibo le veniva lasciato al di fuori della porta, aveva come letto una cassapanca alta con una croce di legno in rilievo. Nessun contatto con l’esterno. La badessa e il padre spirituale le parlavano attraverso una grata. Una vera eremita in una stanza deserta. Di lei esiste una bella biografia scritta dal monaco camaldolese Thomas Matus.


Un giorno ho avuto il privilegio di visitare la stanza con un mio amico monaco; appena entrati ci siamo seduti per terra per meditare e abbiamo avuto due emozioni completamente diverse. Il mio amico, in sintonia con il luogo, ogni volta che vi entra sente il cuore che si scalda. Io, invece, ho avuto un’esperienza forte, ma di paura. Stavo con gli occhi chiusi, nella posizione del mezzo loto, erano trascorsi pochi istanti, quando ho avvertito una forza potente che mi paralizzava, mi schiacciava il torace impedendomi quasi di respirare, come se qualcuno volesse attraversarmi. Mi sono spaventata, ho cantato l’Om mentalmente, ho aperto gli occhi e la tensione si è sciolta. Per prima cosa ho pensato che l’anima dell’anacoreta non avesse gradito la mia presenza. Ero un’estranea nel suo piccolo regno, ma una santa può avere attacchi di rabbia?


L’Anahata Chakra,è il chakra del cuore.Quando si raggiunge l’amore universale probabilmente si è vicini alla perfezione.


sabato 3 aprile 2010

Lo stupa di Sanchi





Quando sono in viaggio mi piace, dove è possibile, pregare in tutti i templi, buddisti, induisti, cattolici, mussulmani. Non faccio distinzione di architetture. Devo però ricordare che il luogo più carico di misticismo che ho visitato rimane lo Stupa di Sanchi, vicino a Bhopal. Fu fatto costruire dall’imperatore Ashoka più duemila anni fa, in cima a una collina, e completato qualche secolo più tardi. Sono rimasti intatti anche altri piccoli stupa e resti di monasteri.


Lo stupa principale, un’enorme semisfera poggiata sul terreno, dove vengono conservate le reliquie del Buddha, ha quattro porte rivolte verso i quattro punti cardinali, ogni porta ha stupendi bassorilievi. E il sole cade, entra ed esce nelle porte, secondo se è l’alba o il tramonto. È un posto di una carica spirituale incredibile, frequentato soltanto da devoti buddisti che compiono, come raccomanda la tradizione, tre giri intorno allo Stupa per caricarsi di energia cosmica. È fuori dagli itinerari turistici e forse per questo ha conservato intatto il suo fascino.


Lo Stupa di Sanchi è nel cuore dell’India, è l’ombelico dell’India. Il tempio è grandioso e povero nello stesso tempo, ha soltanto quattro porte scolpite, e attorno alberi e panchine. È un posto magico, veramente magico. Quando sono andata la prima volta a Sanchi era anche il mio primo viaggio in India. Ero malata, uscivo da una lunga e dolorosa malattia, avevo il cuore aperto, forse perché stavo vivendo un’intensa storia d’amore, ed ho avuto un’esperienza che potrei definire di espansione di coscienza. Mi sentivo così felice, parte di un Tutto. Una magia, questo mondo, una molecola dell’universo. Ho fatto tre giri attorno al tempio, come raccomanda la tradizione e come vedevo fare ai devoti, e mi sono sentita subito ricaricata di energia vitale. Avevo barcollato fino al giorno prima, ero così debole poi, improvvisamente, l’energia cosmica tornava a fluire dentro di me, mi donava tono e vitalità. Incredibile! Non ero una buddista, ma amavo e amo moltissimo la figura del Buddha, e aveva funzionato.


Ma quando ci sono tornata dopo dieci anni, nel 1990, — perché ho voluto rivedere quel tempio che mi aveva così colpito la prima volta — non mi ha dato le stesse emozioni. La mia storia d’amore era finita, il mio cuore si era chiuso, ormai di pietra, incapace di amare, e non ho sentito più niente, né l’espansione di coscienza, né questo sentirsi parte di un Tutto, né l’energia cosmica che entrava dentro, filtrava e mi ricaricava. Ho capito che se non si è pronti dentro le cose non accadono.


Per arrivare a Sanchi bisogna passare per Bophal, città dallo stile occidentale, almeno nella parte nuova, con un bel lago, tristemente nota per l’incidente dell’Union Carbide. Nella notte tra il 2 e il 3 dicembre del 1984 quaranta tonnellate di gas uscirono dalla fabbrica uccidendo subito 4000 persone e nei mesi successivi altre ventimila. Il veleno immesso nell’aria ( per venti chilometri quadrati) e quello che ha contaminato le falde acquifere produce ancora oggi danni gravissimi alla popolazione.


E dopo ben 26 anni dalla tragedia è arrivata la sentenza beffa: la Corte Indiana ha condannato a due anni di carcere i sette manager indiani, colpevoli di semplice "negligenza" mentre l’ex proprietario della fabbrica (ora della Daw Chemicals) vive felice e impunito negli Stati uniti. I sopravvissuti non sono mai stati risarciti adeguatamente dalla multinazionale e non è stata mai bonificata l’area. Il simulacro della fabbrica è ancora lì a testimoniare la tragedia. Forse per dimenticare tutto l’orrore vissuto, la città ha recuperato un aspetto piacevole. Il museo di Bhopal ha uno stile architettonico moderno: all’interno ci sono un centro di ceramica, una sezione dedicata alla cultura popolare e un’ esposizione di sculture e pitture d’avanguardia.


Ma il motivo per cui la ricordo è un altro: il suo parco zoologico. Tra gli animali e i visitatori c’era un enorme fossato, recinzioni varie. Feci un breve giro lungo la strada che costeggiava il parco. Non vidi elefanti ( che d’altra parte avevo ammirato a Sri Lanka correre lungo una foresta) e nemmeno leoni o pantere, ma una cosa davvero insolita: un enorme orso bianco piangeva disperatamente seduto per terra sulla collina di fronte. Sono rimasta a guardarlo per un po’ chiedendomi che cosa lo facesse soffrire tanto, i suoi singhiozzi erano così strazianti, da sembrare davvero il pianto di un essere umano.

venerdì 2 aprile 2010

La sofferenza

La sofferenza

La sofferenza del corpo e dell’anima mi hanno accompagnato entrambe in tutta la vita, a volte separatamente, a volte insieme. La malattia fisica si è spesso sommata a un lutto o a un abbandono. Ho sempre avuto la sensazione di abitare una “casa” fatiscente che necessita di una manutenzione continua. Non si fa in tempo a riparare il tetto che crolla il pavimento, si puntella una parete salta l’impianto idraulico. E spesso fanno tilt due o tre cose contemporaneamente e allora mi prende una sorta di disperazione e di impotenza e la voglia di abbandonare questa “casa”, che ha troppe cicatrici e rattoppi, e forse non ha più senso spendere tanta energia e tempo per tenerla in piedi.


È cominciato tutto da bambina. Mia madre mi diceva che bastava una nuvola in cielo per farmi ammalare. Ricordo un tavolo operatorio. Sulla mia testa una grande luce circolare. Poi appare un libro enorme che comincia a girare e ad ogni pagina compare il volto di un medico o di una infermiera. Poi una bicicletta passa sulla mia pancia. A quell’ epoca non esistevano gli anestetici moderni; c’era la maschera di etere che dava un’arsura terribile. Per tre giorni mi proibirono di bere: la ferita era aperta e così rimase per circa un mese. Urlavo per il dolore e per la sete e tiravo i capelli a mia madre: non capivo perché fosse così crudele da negarmi l’acqua. Lei mi passava un po’ di cotone bagnato sulle labbra riarse e mi diceva: “Senti i rumori? Stanno facendo dei lavori. L’acqua non c’è; torna fra tre giorni”. Avevo sette anni ed era Natale.



Desiderare di morire

Quando molti anni fa sono stata ricoverata più volte in ospedale, mio figlio mi veniva a trovare e mi portava i suoi disegni colorati. Sotto ci scriveva “Alla super mamma”. Aveva sette anni. Appendevo quei fogli sul muro, e questo mi dava la forza di continuare. Mi ricordo una notte. Ero sola in casa con mio figlio. Avevo dolori atroci alla schiena, mi ero alzata per prendere un bicchiere d’acqua. Ad un certo punto mi sono ritrovata per terra, in ginocchio, mentre dicevo piangendo: “Dio, fammi morire”. Eppure, sono sicura, stavo pensando: “Dio, fammi guarire”. C’è stata una dissociazione mentale tra il mio pensiero e le mie labbra. Ero arrivata a uno stato tale di saturazione dei farmaci che anche gli analgesici non mi facevano più effetto, anzi mi facevano l’effetto contrario. L’unica cosa che mi dava la forza di andare avanti, che mi teneva in vita, era il pensiero di mio figlio che dovevo accudire, amare, sostenere. Se fossi morta sarebbe rimasto completamente solo.


Era soltanto l’esasperazione della sofferenza: invocavo la morte, pur di non soffrire ancora. E nel Corano il profeta Maometto invita i fedeli a non desiderare mai la morte ma a pronunciare questa preghiera: “Signore, tienimi in vita finché la vita è un bene per me, e fammi morire se per me sarebbe meglio morire”.


Come si fa a capire quale è la volontà di Dio? Ma un cristiano non deve augurarsi la sofferenza per imitare il Cristo, per purificarsi? Anzi non ci sono stati santi che pregavano di ricevere la prova della sofferenza? Si può diventare santi anche senza soffrire atrocemente?


In tutti questi anni mi sono sempre sentita dire dagli altri che dovevo considerarmi fortunata, perché le persone che soffrono sono più vicine a Dio. E io mi sono sempre chiesta: Ma se Dio non è vicino alle persone che soffrono? Se uno non sente questo sollievo interiore, questa presenza divina che ti dà la forza di continuare? I santi avevano la fede, per questo potevano superare tutte le afflizioni, tutte le prove.


San Francesco non vedeva i suoi malanni. La fede ti dà la forza di andare avanti, altrimenti c’è soltanto la disperazione. Yogananda diceva che si può vivere con un paradiso interiore, dovunque andiamo, se riusciamo a vivere nella gioia spirituale che ci viene da un’assidua e profonda meditazione.