venerdì 26 marzo 2010

La resurrezione di Sri Yukteswar



Tra i discepoli di Lahiri Mahasaya il più noto in occidente è Sri Yukteswar, chiamato Jnanavatar, Incarnazione della Saggezza. Anche lui era un grande yoghi, con un temperamento severo e austero. A Sri Yukteswar lui fu affidato il compito di preparare Paramahansa Yogananda alla sua missione spirituale: diffondere il Kriya Yoga nel mondo. A questo scopo Parahamansa Yogananda fondò nel 1920 a Los Angeles la Self Realization Felloswship (SRF); nel 1917 aveva fondato in India la Yogoda Satsanga Society of India (YSS).


Nella sua Autobiografia Paramahansa Yogananda descrive l’incontro con Sri Yukteswar, avvenuto il 19 giugno del 1936, tre mesi dopo il mahasamadhi — la morte, come direbbe un occidentale — del suo guru. Sri Yukteswar aveva lasciato il suo corpo il 9 marzo 1936 e Yogananda racconta di aver abbracciato il suo maestro in carne ed ossa, di averlo visto con un corpo simile a quello che aveva sulla terra. Sri Yukteswar spiega che un grande yoghi è in grado di ricomporre gli atomi cosmici, in modo da presentarsi con un corpo simile a quello che aveva precedentemente. Lui è risorto e racconta a Yogananda che vive su un pianeta astrale, Hiranyaloka, dove vanno tutti gli spiriti elevati. In questo capitolo, Sri Yukteswar svela i misteri dell’universo, della vita, parla dei pianeti astrali, delle leggi che regolano il karma.


Durante uno dei miei viaggi in India mi sono recata a Puri per visitare l’ashram di Sri Yukteswar e la sua tomba. Il soggiorno, purtroppo, è legato a ricordi di notti insonni per colpa di migliaia di zanzare che si accanivano su di me, unica preda. Non avevo scampo; senza zanzariere, senza aria condizionata, era un vero tormento. Così una notte, per disperazione, mi alzai all’alba e andai sulla spiaggia. Con le prime luci arrivarono dal mare le piccole imbarcazioni dei pescatori, mentre dalla spiaggia si affrettavano i compratori, intenzionati a contrattare sul prezzo. Un insolito spaccato di vita quotidiana, difficile da vedere se si seguono i classici percorsi turistici.




Lahiri Mahasaya, uno yoghi con famiglia


Lahiri Mahasaya era un padre di famiglia. Lavorava in un ufficio come contabile, nel dipartimento del genio militare del governo inglese; durante il suo servizio ottenne anche diverse promozioni. E per questo incarico fu costretto spesso a trasferirsi da una città all’altra. A diciotto anni sposò una giovane ed ebbe quattro figli, due maschi e due femmine. A trentatré anni incontrò il suo guru, Babaji, ed ebbe l’iniziazione al Kriya Yoga. Lahiri Mahasaya è l’esempio concreto, citato più volte da Yogananda nella sua autobiografia, che si può diventare yoghi anche facendo una vita normale, anzi raggiungendo il pieno successo nel proprio lavoro. Secondo Yogananda la stessa vita di Krishna dimostra che non è necessario lasciare le responsabilità della vita materiale. Il problema può essere risolto portando Dio dove Egli ci ha collocati.


Ci sono luoghi, in India, che ho voluto rivedere più volte; Sanchi, per esempio, dove esiste il più antico stupa buddhista, un posto di grande energia spirituale. E sono voluta ritornare anche a Varanasi. E’ molto suggestivo all’alba prendere la barca e percorrere il Gange e vedere lungo i vari ghat centinaia di persone fare le abluzioni mattutine per purificarsi e ,in lontananza, udire il canto di un mantra che viene dai tanti ashram situati lungo le rive del fiume. La seconda volta che sono stata a Varanasi ho voluto cercare la casa di Lahiri Mahasaya. Non è stato facile. Con un mini taxi mi sono inoltrata nelle stradine della città vecchia. Più volte il tassista si è fermato per chiedere informazioni, sembrava che nessuno conoscesse il posto. Poi siamo arrivati presso una scuola di musica, frequentata da stranieri, e qualcuno lì ci ha dato l’indicazione giusta. Finalmente la casa di Lahiri Mahasaya! Nel cortile interno c’erano tre statue: quella di Lahiri e di altri due suoi discendenti. La tradizione del Krya Yoga, nella famiglia di Lahiri Mahasaya, continua a trasmettersi di padre in figlio. Una generazione di grandi yoghi.




La morte di Hélène


Hélène è stata una grande analista junghiana, profondamente spirituale, acuta e dolce; ha avuto come maestri Ernst e Dora Bernhard. Era nata a Basilea il 19 luglio del 1904, si era laureata in legge, ma l’incontro con Yogananda aveva cambiato la sua vita.


Il nostro rapporto è stato all’inizio quello classico, tra analista e paziente, poi , nel corso degli anni , si è trasformato in un rapporto di profonda amicizia. Anche lei confidava le sue pene e a volte andavamo insieme a meditare nella cappella della SRF di Roma. Nell’estate del 1986 Hélène, come faceva spesso, era tornata in Svizzera per le vacanze estive, ma i mesi passavano e di lei non si avevano più notizie. Un giorno , con gli occhi dell’anima, la vidi malata, in una stanza tutta bianca. Finalmente, dopo laboriose ricerche, riuscii ad avere il numero di telefono della clinica dove era ricoverata. La chiamai diverse volte, lei voleva tornare a Roma, al suo lavoro, ma i medici sconsigliavano il trasferimento. Cercai di confortarla e di assicurarla che tutti coloro che l’ amavano l’aspettavano a Roma che , da moltissimi anni , era diventata la sua città. Alla fine Hélène tornò, era ancora abbastanza lucida, così decidemmo insieme di incontrarci spesso per raccogliere materiale per un libro. C’erano le sue conferenze da recuperare, la memoria del suo lavoro. Per un mese ci vedemmo due volte alla settimana, fino al 31 gennaio 1987, quando la pagina del mio taccuino rimase bianca.


La malattia di Hélène progrediva rapidamente, non era più autosufficiente. Aveva vuoti di memoria, paure infantili. Tutta la sua cultura, la sua sensibilità, la sua intelligenza, la sua ironia venivano cancellate giorno dopo giorno. Era rimasto il suo sorriso dolcissimo e i suoi occhi che avevano il colore di un lago alpino. Vederla soffrire mi faceva soffrire terribilmente, così egoisticamente rallentai le mie visite e mi vergognavo per questa scelta. Un giorno la trovai in piedi, scalza. La donna che l’assisteva l’aveva punita. Lei mi vide e disse:” Per fortuna che sei arrivata, sei il mio angelo”. La mia angoscia aumentava, come aumentava il mio senso di impotenza. Per dieci anni lei era stata il mio unico punto di riferimento, mi capiva al volo e sapeva condurmi al cuore dei problemi, ma in quella circostanza lei aveva bisogno di me ed io non sapevo come aiutarla.


Pensando di farle cosa gradita organizzai un pomeriggio di preghiera e di canti di Yogananda. Non immaginavo che quello sarebbe stato l’ultimo giorno che l’avrei vista. Quando arrivai lo capii subito. Era stesa sul letto, i suoi occhi guardavano lontano. Non parlava più, era assente , ma per un po’ sembrò ripetere il mio nome. Le stringevo la mano e piangevo disperata, la mia madre spirituale mi stava lasciando. Mentre risuonavano nella stanza le dolci melodie dei bhajans creati da Paramahansa Yogananda, Hélène ascoltava in silenzio.


Il gruppo di devoti della Self Realization Fellowship di Roma se ne andò in serata , io rimasi accanto a lei ancora per un po’, continuando a stringerle la mano mentre piangevo silenziosamente. Alla fine tornai a casa. A mezzanotte mi arrivò la telefonata che mi comunicava la morte di Hélène. Era il 19 ottobre del 1987. La sua scomparsa ha lasciato in me un vuoto incolmabile.


Foto: Natale 1986. A sinistra Hélène, a destra Rosanna Zerilli ( Horus).


Hélène Erba Tissot


La mia amica Hélène Erba Tissot amava ripetermi che avevo dentro di me una sorta di amplificatore interno, che dovevo imparare a manovrare, perché le emozioni erano così violente che la mia salute ne avrebbe risentito. Se si nasce ipersensibili ed emotivi è difficile raggiungere il distacco, ma in tutti questi anni è stato il mio terreno di lavoro. Vivere nel mondo senza essere del mondo. E la solitudine è stata una scelta di necessità, non soltanto per sopravvivere fisicamente, ma anche per dedicarmi agli interessi spirituali.


È stata Héléne, durante le sedute di analisi, a farmi tornare l’amore per la filosofia yoga, che avevo scoperto durante l’adolescenza. È stata lei a regalarmi la prima foto di Paramahansa Yogananda, che da allora è sul mio comodino accanto al letto. È stata Héléne a far riaffiorare dall’inconscio un episodio che avevo completamente dimenticato e che riguarda una strana impronta di mano trovata su un mio grembiule da cucina. Con lei ho percorso anni difficili di cammino spirituale, piena di dubbi e di diffidenze. Ancora segnata dall’esperienza cattolica non volevo rientrare in un’altra chiesa.



L’incontro con lei, anche quello predisposto da una serie di circostanze incredibili, ha cambiato la mia vita in tutti i sensi. Un amico psicoanalista mi disse:” Preferirei che tu andassi da un’altra persona, una nonna, ti racconterà le favole”. Fu proprio grazie a lei che andai a curarmi in Germania, vicino a Stoccarda, in una clinica diretta da un suo amico medico. Un mese di cure alternative e finalmente, dopo quattro anni di dolori atroci alla colonna vertebrale, ritrovai a poco a poco un po’ di benessere. Era il nostro un rapporto molto intenso. È stata per me sicuramente un guru vivente, che mi ha avvicinato all’altro guru, che io non ho conosciuto, ma lei sì, Yogananda.

In uno dei nostri incontri Hélène mi parlò del suo viaggio a Los Angeles:


“Sono arrivata in America il 4 marzo del 1952, tre giorni prima della morte di Yogananda. E’ stata per me una data importante. Ho conosciuto Yogananda proprio pochi giorni prima del suo mahasamadi . “Vai a trovarlo”, mi aveva detto Ernst Bernhard. La cosa che più mi ha colpito è stata la semplicità con cui mi ha ricevuto. Quando l’ho visto per la prima volta era circondato da una grande luce; ero molto emozionata, avevo la sensazione di vedere una persona già vista. Aveva detto ai suoi discepoli che aspettava tre persone dall’Europa, ma nessuno sapeva del mio arrivo. Davanti alla sua tomba ho visto una luce, poi la stella a cinque punte, l’apertura del terzo occhio. Col tempo si è richiuso, ma adesso so che c’è, che esiste realmente, non soltanto nei libri di yoga. “



domenica 21 marzo 2010

La Bhagavad Gita: una metafora?

La Bhagavad Gita: una metafora?

Alcuni commentatori intendono la storia della Bhagavad Gita come una metafora dell’evoluzione spirituale dell’uomo. Arjuna, il discepolo del Dio Krishna, deve combattere ed uccidere i suoi cugini che ama, di qui la sua crisi di coscienza, ma forse i Kaurava sono soltanto parti di sé che deve avere il coraggio di superare per avanzare nel cammino spirituale.


Paramahansa Yogananda ha lavorato per anni al commento della Bhagavad Gita. All’inizio del primo capitolo del suo libro scrive: “Il messaggio eterno della Bhagavad Gita non si riferisce soltanto a una storica battaglia, ma al conflitto cosmico tra il bene e il male: la vita come una serie di battaglie tra Spirito e materia, anima e corpo, vita e morte, conoscenza e ignoranza, salute e malattia, immutabilità e transitorietà, padronanza di sé e tentazioni, discernimento e mente accecata dai sensi”.


Anch’io credo che dobbiamo interpretare la Bhagavad Gita come una metafora. Noi combattiamo la nostra battaglia quotidiana, la lotta è contro i nostri demoni interiori, la nostra Ombra. Non posso pensare che Krishna inviti Arjuna a uccidere un altro senza pietà perché quello è il suo dovere in quel momento. Sono per la non-violenza gandhiana e in India la non violenza credo abbia radici antiche. Quando mio figlio era piccolo mi sono chiesta più volte se sarei mai stata capace di uccidere per difenderlo. Una madre deve uccidere per difendere i propri figli?


sabato 20 marzo 2010

Samadhi

Samadhi

Nirvana , Samadhi, Illuminazione, sono parole diverse per esprimere quello stato di perfetta unione e armonia tra la coscienza individuale e la coscienza universale, cioè l’ estasi, la beatitudine sperimentata dai santi. Per uscire dal ciclo delle rinascite ci vogliono centinaia, forse migliaia di incarnazioni, poi — secondo i testi di yoga — si passa nel mondo astrale e infine in quello causale. Per il cristiano, invece, c’è una sola vita e la dottrina non prevede l’abbandono progressivo dei tre corpi: il corpo eterico o fisico, il corpo astrale o emotivo e il corpo–idea o causale.


Il corpo fisico dipende dal cibo e si distrugge con la morte; quello astrale dipende dall’energia, dalla volontà e dall’evoluzione del pensiero e il terzo corpo, quello causale, dipende dalla saggezza e dalla felicità. Gli ultimi due corpi rimangono legati insieme dai desideri e dal karma non consumato. E sono proprio i desideri che ci legano alla terra e ci spingono a reincarnarci.


ParamahansaYogananda, un grande yoghi vissuto negli Stati Uniti, dove ha fondato a Los Angeles nel 1920 la Self Realization Felloship, fa una sottile distinzione tra Spirito e anima. Lo Spirito è “gioia” sempre nuova; l’anima ne è il riflesso individualizzato. Quando tutti i desideri sono consumati con la meditazione, i tre corpi–prigione si dissolvono e l’anima diviene puro Spirito.


venerdì 19 marzo 2010

Padre Mariano Ballester


Nell’anno tremila ci sarà un'unica religione


Il progresso nasce dall’apporto di varie esperienze e culture, così la spiritualità può crescere grazie all’apporto di tutte le religioni. Forse soltanto riunendo le intuizioni, le esperienze dei mistici di tutto il mondo ci si può avvicinare a capire l’Inesprimibile.

Uno scienziato che si mette a tavolino perché deve scoprire il segreto dei geni, fa tesoro di tutte le scoperte precedenti fatte da altri nei secoli. Così una persona spirituale, che vuole raggiungere Dio, utilizza tutte le strade che trova sul suo cammino. Potrebbe pregare in un tempio buddhista o in un tempio induista. Qualunque tempio è la casa del Signore. Alla fine, inevitabilmente, sceglierà la sua strada, quella più congeniale a lui per cultura o per temperamento, ma se conosce anche le altre religioni saprà rispettarle ed amarle.

Padre Mariano Ballester, un gesuita spagnolo che da più di trent’anni conduce esercizi spirituali, aperti a laici e religiosi, insegna alcune tecniche per entrare in contatto con il Sé, con il centro divino che è in noi. Tecniche che hanno molti punti in comune con lo yoga e lo zen. Padre Mariano Ballester è una figura molto bella all’interno della Chiesa, eppure sembra quasi che agisca nella clandestinità. Esprime concetti rivoluzionari, lontano dal pulpito. Un’avanguardia di quella che sarà, a mio avviso, la Chiesa del futuro, forse nel tremila.


giovedì 18 marzo 2010

La Bhagavad Gita

La Bhagavad Gita

La Bhagavad Gita è il vangelo degli indù ( risale al V secolo avanti Cristo); il libro raccoglie la parte essenziale della filosofia yoga. Nella Gita si assiste a una battaglia simbolica tra le forze del bene e le forze del male. Arjuna, l’anima individuale, è in crisi, non vuole uccidere i suoi stessi cugini e Krishna , la luce interiore, lo stimola a fare il suo dovere. Arjuna guida il carro che è il corpo, trainato da 5 cavalli che sono i 5 sensi. Il conflitto interiore dà dolore e angoscia e Arjuna chiede aiuto a Krishna perché lo illumini. Ciò che Arjuna deve uccidere sono, presumibilmente, alcune parti della sua personalità: i desideri, gli attaccamenti, le passioni, l’orgoglio, i pregiudizi . Per raggiungere questo scopo ci sono vari sentieri : l’hata yoga, quello più conosciuto in occidente, si occupa di purificare il corpo attraverso le asana (posizioni) e il pranayama (respirazione controllata); il bhakti yoga, utilizza l’amore e la devozione; il karma yoga, la via dell’azione senza attaccamento ; lo jnana yoga, la conoscenza. Ogni uomo sceglie la via a lui più congeniale per temperamento e cultura.


“ Lo yogin- dice Krishna ad Arjuna- la cui anima si soddisfa della sapienza, padrone dei sensi, per il quale un pugno di terra, un sasso, un pezzo d’oro sono la stessa cosa ha raggiunto l’equilibrio yogico”.


Lo yoga non è una religione nel senso tradizionale, è una scienza spirituale che aiuta l’uomo a raggiungere la coscienza universale. Se la funzione delle religioni è di restaurare il rapporto tra l’uomo e la sua fonte cosmica, lo yoga è la scienza pratica, il cuore nascosto di tutte le religioni. Sono precetti ed esercizi che può eseguire chiunque, a prescindere dal suo credo religioso. Al limite anche un agnostico potrebbe fare, per esempio, il Kriya Yoga o seguire il Bhakti Yoga, lo Yoga dell’amore, o il Karma Yoga, lo Yoga dell’azione senza attaccamento. Questa vita può essere per noi un’occasione preziosa per trascendere la nostra limitata esistenza e ottenere quello stato di pienezza, di gioia, di pace perfetta che si dovrebbe raggiungere quando si risveglia il Divino che è in noi.


E per sottolineare che gli uomini adorano lo stesso Dio sotto nomi diversi, Paramahansa Yogananda ripeteva: “Oriente e Occidente dovranno distruggere per sempre le divisioni meschine nelle case di Dio. Raggiungendo la realizzazione del Sé con lo Yoga, gli uomini sapranno di essere tutti figli dell’unico Padre”.


mercoledì 17 marzo 2010

La Divine Life Society

La Divine Life Society

Nel 2000 visitai l’ ashram della Divine Life Society, fondato da swami Shivananda a Rishikesh. Nel 1963, dopo la morte di Shivananda, la responsabilità della società passò a Swami Chidananda, considerato dagli adepti un buddha vivente. Quando arrivai a Rishikesh lo swami non c’era, come sempre era in giro per il mondo per predicare la chiave della felicità, con il suo stile semplice ed umile. Lo incontrai anni dopo in Italia e mi colpì per la pace e la serenità che emanava. Swami Chidananda lasciò il suo corpo (mahasamadi) il 28 agosto 2008.


Quella settimana di soggiorno nell’ashram di Rishikesh fu un’esperienza indimenticabile, che mi segnò profondamente. Ero piena di paura, sofferente, ammalata, chiusa in una ruvida stanza senza confort, in pieno monsone. Una bronchite con febbre alta e una labirintite mi impedirono di proseguire il viaggio. Anche il più piccolo movimento mi provocava un effetto vertigine: pareti e soffitto giravano vorticosamente impedendomi di alzarmi. Ero appena arrivata, ero chiusa nella stanza, quando cominciai a sentirmi male; soltanto la sera riuscii a strisciare sul letto e ad aprire la porta alla signora americana, che da anni viveva nell’ashram, nella stanza accanto. Lei organizzò la mia sopravvivenza e fui salva. Un giovane indiano mi portava due volte al giorno il cibo dalla mensa con dei contenitori di acciaio e mi riforniva di acqua minerale e di medicine omeopatiche.


Nella stanza, molto spartana, dove vivevo non c’era un bagno. Un gabinetto, con lavandino e water, era nel corridoio. Pochissime camere, riservate ai residenti, avevano la fortuna di un gabinetto interno. Qualche volta nel corridoio era possibile incontrare delle scimmie che rovistavano nelle pattumiere. Entravano dal terrazzo, quando qualcuno lasciava inavvertitamente la porta aperta. Soltanto alla fine del soggiorno riuscii a salire sul terrazzo al tramonto. Uno spettacolo bellissimo: migliaia di lucciole adornavano i rami degli alberi, erano come tanti alberi di Natale, pieni di luci intermittenti. Eppure eravamo sulle sponde del Gange, ai piedi dell’Himalaya.


Infine, debolissima e ancora febbricitante, mi rimisi in piedi per proseguire il viaggio. Prima di partire e raggiungere Delhi con un taxi, dove avrei preso l’aereo che mi riportava in Italia, andai a fare una breve passeggiata sul ponte che unisce le due rive del Gange. La labirintite non era ancora del tutto risolta e sotto i miei piedi il ponte oscillava paurosamente .


Avevo vissuto per giorni con un senso di solitudine, precarietà e morte. Tornai cambiata, come ogni volta che viaggio in India. Quando entrai nel mio appartamento mi sembrò diverso, estraneo, pieno di cose superflue, inutili. Impiegai parecchio tempo prima di superare l’angoscia che mi procurava il rumore della pioggia. Per una settimana avevo vissuto con il rumore violento e insistente del monsone che batteva giorno e notte sui vetri spogli della mia cameretta, che aveva il cemento come pavimento. Un materasso di crine copriva la brandina , un piccolo tavolo e una sedia completavano l’arredamento. Semplici disagi che ci riportano alla vera essenza della vita. In realtà, si può fare a meno di tutto. Si può vivere di privazioni e stenti e si può essere sereni. Il lusso, le comodità in cui viviamo non ci rendono felici.


La potenza del pensiero

aiuta il destino.

L’uomo semina un pensiero

E raccoglie un’azione;

semina un’azione

e raccoglie un’abitudine;

semina un’abitudine

e raccoglie un carattere;

semina un carattere

e raccoglie un destino.

L’uomo costruisce il suo avvenire

con il proprio pensare e agire.

Egli può cambiarlo

perchè ne è il vero padrone.


Swami Shivananda

martedì 16 marzo 2010

lo Yoga e i vari sentieri di perfezione

Lo Yoga e i vari sentieri di perfezione

La cultura e la civiltà che hanno prodotto la filosofia yoga sono antichissime. I primi testi risalgono forse a tremilacinquecento anni fa. Sono molto antecedenti alla venuta del Cristo. Lo Yoga è uno dei sistemi ortodossi della filosofia induista. Esistono vari sentieri di perfezione, il più conosciuto in occidente è sicuramente l’Hatha Yoga, praticato come ginnastica dolce; poi c’è la via dell’amore e della devozione, Bhakti; la via della ripetizione di suoni sacri, Mantra; il sentiero dell’azione compiuta senza attaccamento, Karma; la via della conoscenza e della saggezza, Jnana; la tecnica di concentrazione sui suoni astrali, Laya, e, infine, lo Yoga regale, Raja, che li comprende un po’ tutti.

L’ascesi nello Yoga

L’uomo scopre il divino che è in sé. E non importa il nome che noi usiamo: Essere Supremo, Nirvana, Satori, Brahma, Allah, Jahweh, Elohim. Ciò che è importante è utilizzare questo breve pellegrinaggio sulla terra per cercare un collegamento con Dio e proseguire in quella direzione. È questo, mi pare, il senso del messaggio di Paramahansa Yogananda. Un forte richiamo alla propria interiorità, a scoprire il Sé, a superare steccati e divisioni. Lui non proponeva dogmi e non pretendeva atteggiamenti fideistici ciechi ma offriva ai discepoli le tecniche per entrare in contatto con Dio. Poi diceva: lavorate, seguite i miei insegnamenti con devozione e disciplina e avrete la prova di ciò che dico. Quindi, non è necessario isolarsi in una caverna.

lunedì 15 marzo 2010

Incontro con Thich Naht Hanh


Incontro con Thich Naht Hanh

Siddharta seduto in meditazione che viene tentato. Questa immagine del film di Bertolucci esprime forse l'essenza del Buddhismo. Rimanere imperturbabili, calmi, sereni, consapevoli qualunque cosa accada intorno a noi. E in una società frenetica, violenta, tesa al successo e al denaro come la nostra, la serenità, la felicità fatta di piccole cose sono un bene così prezioso e raro che molti occidentali, si rivolgono alla pratica del buddhismo e della meditazione per ritrovare quella pace perduta. Cosa mancava, infatti, a un attore come Richard Gere, se non la serenità interiore? Da molti anni l'ha trovata accanto al Dalai Lama, capo spirituale in esilio dei tibetani, diventando un suo fedele devoto. E cosa porta un cattolico a fare una scelta così diversa dalla propria tradizione culturale?

Una delle personalità più famose del buddhismo zen é il maestro vietnamita Thich Nhat Hanh. In Francia ha fondato un monastero vicino a Bordeaux meta di molti occidentali in cerca della felicità. Scrittore , poeta, fautore del buddhismo impegnato. Durante la guerra in Vietnam lavorò per la riconciliazione tra il Nord e il Sud . Creò " i piccoli corpi di pace", gruppi di laici e monaci che si recavano a ricostruire i villaggi devastati dalla guerra. Per questa sua opera nel 1967 Martin Luther King lo candidò al Nobel per la pace. Il successo dell'insegnamento di Thich Nhat Hanh sta nella sua semplicità e immediatezza; tanto che anche i bambini possono capirlo.

Lo abbiamo incontrato in uno dei suoi seminari romani.


Quale é allora il segreto della felicità?


"La felicità é possibile quando si impara a coltivare la comprensione e il senso di umanità. Non sono certo fama, ricchezza, potere e sesso, a darci la felicità. Perché quelli che hanno raggiunto tutto questo non sembrano affatto felici."


Come può un occidentale immerso nella vita frenetica di tutti i giorni praticare la meditazione?


"Molti pensano che la meditazione sia soltanto statica. Si può meditare anche camminando, bevendo un tè, cucinando. Nel contesto buddhista meditare significa vivere nel presente, qui ed ora. Per esempio, quando guidi l'auto e ti devi fermare perché il semaforo é rosso , invece di arrabbiarti o essere impaziente, inspira ed espira lentamente rilassandoti. La vita é disponibile solo nel momento presente, mentre noi abbiamo la tendenza a correre verso il futuro o a guardare al passato. La felicità é possibile quando si impara a coltivare la comprensione e il senso di umanità. "


Perché nel mondo c’ é tanta violenza?


“Il vero nemico dell'uomo non é l'altro uomo, ma la rabbia, l'odio che é dentro di noi. Per questo é importante la meditazione, importante lavorare su di noi. Anche quando c'é guerra in famiglia, l'ascolto consapevole e l'amore possono far superare ogni difficoltà. Non é necessario rinnegare la propria tradizione o la propria religione per seguire la meditazione zen. Mantenete ogni cosa, introducetevi soltanto la consapevolezza, la gioia, la pace.”


Thich Naht Hanh sarà a Napoli dal 26 al 28 marzo 2010 per un ciclo di incontri e conferenze.

sabato 13 marzo 2010

il carisma e le folle osannanti

Il carisma e le folle osannanti

C’erano migliaia di persone che andavano ad ascoltare i sermoni di Gesù sulla montagna. Lui moltiplicava pani e pesci per sfamare la gente. E loro lo seguivano mentre si spostava da una città all’altra. Anche Giovanni Paolo II , con il suo carisma, nonostante l’età e la malattia, è sempre riuscito a catturare milioni di persone, sia durante i suoi viaggi all’estero, quando portava la sua parola di pace in ogni angolo sperduto della terra, sia durante le cerimonie in Vaticano. Il Giubileo del 2000 è stato un vero trionfo di folle.


I predicatori televisivi

Il bisogno di Dio ha prodotto negli Stati Uniti uno strano fenomeno, il proliferare di tante Chiese, di tanti predicatori. Lo scrittore americano Harold Bloom in una intervista dà un’interessante interpretazione della richiesta di spiritualità degli americani, sfociata poi nel fenomeno della New Age. Il rifiuto del dogmatismo e della cristianità istituzionale, che sta alla radice della New Age, — dice— è molto valido, ma sfortunatamente — aggiunge Harold Bloom — gli americani non sono colti né molto intelligenti. Questo spiegherebbe secondo Bloom il proliferare di sette e predicatori e il successo di libri come La profezia di Celestino.

l'esperienza di Henri Le Saux

L’esperienza di Henri Le Saux

Nel libro “Alle sorgenti del Gange, pellegrinaggio spirituale” il monaco benedettino Henri Le Saux parla del suo cammino spirituale, così angoscioso, così conflittuale. In India lo chiamavano swami Abhishiktananda. Henri Le Saux veniva dalla Bretagna mentre Jules Monchanin, anche lui monaco benedettino, veniva da Lione. Insieme hanno fondato un ashram nel sud dell’India , “Shantivanam” , un esperimento molto singolare nella chiesa cattolica.

Henri Le Saux voleva cercare Dio su due sentieri paralleli, quello cristiano e quello indù. Fece un lungo pellegrinaggio, durato tre mesi, fino alle sorgenti del Gange, a Gangotri, e, vestito di arancione, celebrava l’Eucarestia in una caverna. Credo di aver capito, leggendo il libro, che è soltanto in punto di morte, o poco prima di morire, che è riuscito - non a fare confluire le due religioni o le due scelte - ma a superarle entrambe. La sua storia è affascinante. È il tipo di ricerca spirituale che mi è più vicina, fatta di dubbi e di disperazione, senza consolazioni. Il suo è stato un cammino straziante, sia pure con grandi illuminazioni. Nel suo diario parla continuamente di angoscia e di sofferenza. Questo ci fa capire che, anche per i grandi, il rapporto con Dio non è senza contraddizioni e dolore. E che se non si è chiamati è difficile raggiungere l’Illuminazione. Henri Le Saux scrive: “ Nessuno infatti può mai salire al vertice della grazia e pervenire alla sua sorgente se la stessa grazia non l’ha predisposto.”


l'incontro con una lebbrosa

L’incontro con una lebbrosa

Voglio raccontare l’incontro con una lebbrosa, la storia di una fotografia mancata. Ero a Varanasi, città sacra sulle rive del Gange. Avevo girato con il taxi tutto il giorno alla ricerca della casa di Lahiri Mahasaya, il santo yoghi, che ha avuto una famiglia, dei figli, ha lavorato in un ufficio come un semplice mortale. Avevo comprato molti libri e non mi era rimasto in tasca che qualche centesimo. Mi ero fermata per vedere un tempio. Con molta discrezione si avvicinò una giovane donna che teneva tra i due moncherini fasciati una ciotola di latta per le elemosine. Le diedi gli ultimi spiccioli rimasti e proseguii il cammino, portandomi dentro il suo sorriso, il suo sguardo luminoso e raggiante.

Non riuscivo a dimenticarla ed ero rammaricata di non averle potuto dare di più. I negozi erano chiusi, le banche erano chiuse. Non potevo cambiare i travellers cheque. Ci fermammo all’università di Varanasi. L’autista del taxi incontrò un suo amico e collega e gli chiese un prestito per me. Con cento rupie in mano tornai dove avevo lasciato la donna. La ricordavo giovanissima, con questo suo sorriso dolcissimo. Mentalmente mi dicevo : devo incontrarla di nuovo perché possa darle un piccolo aiuto, perché il nostro incontro non sia stato vano.

Sedute sulle scale del tempio c’erano due donne. Non riuscivo più a ricordare il suo volto, perché mi era rimasto impresso soltanto il suo sguardo, quel suo sorriso così luminoso che l’aveva resa ai miei occhi bellissima e giovanissima. Aveva invece il volto segnato. Si avvicinò di nuovo, le misi nella ciotola le cento rupie e lei mi restituì lo stesso identico sorriso. Una rupia e cento rupie erano per lei la stessa cosa, aveva accettato con sereno distacco le due offerte. Eppure per lei quella era una cifra considerevole. Ci disse che era sposata e aveva un bambino di tre anni.

Questo incontro è stato per me una grande lezione di vita. Noi occidentali abbiamo tutto e siamo infelici e disperati, lei non aveva nulla eppure emanava una grande gioia interiore. Avrei voluto fissare con la macchina fotografica quel suo volto radioso ma non ho osato farlo per rispetto della sua persona e della sua malattia. Avrei dovuto abbracciarla, ma non ho avuto il coraggio di Madre Teresa di Calcutta che cura i lebbrosi. Forse ero soltanto una generosa turista occidentale che, per lavarsi la coscienza di fronte alla sofferenza altrui, dà un’elemosina più consistente. Mi sono resa conto che quello che io avevo dato a lei era ben poco di fronte alla lezione di vita che questa donna mi aveva regalato.


Muna- il voto del silenzio Sri sri sri Satchidananda

Muna- il voto del silenzio - Sri sri sri Satchidananda

La nostra civiltà è una civiltà che non ama il silenzio. Si tende a riempire ogni spazio della propria vita con parole, musica, rumori. L’inquinamento acustico e le vuote parole sono usati come barriere, per impedirci di ascoltare noi stessi e gli altri. Nel libro L’arte di tacere, edito da Sellerio, l’Abate Dinouart fa l’esegesi del silenzio e dà un consiglio: “Desiderare fortemente di dire una cosa, è spesso motivo sufficiente per decidere di tacerla”.

L’ansia, l’angoscia, le nevrosi di oggi scatenano fiumi di parole, ma l’opposto non è la clausura. L’abate Dinouart fa notare che il saggio conosce l’arte del tacere senza per questo chiudersi agli altri; sa essere riservato senza per questo essere taciturno. Egli parla con il volto, specchio dell’anima. E l’abate termina il suo libricino, scritto nel 1771, con un’altra esortazione: “ Spesso si scrive male, talvolta si scrive troppo, non sempre si scrive abbastanza”. Soprattutto si scrivono cose inutili, non meditate.

Il silenzio, quindi, porta con sé il concetto della solitudine. Il silenzio come atto di ascoltare la natura, l’anima, Dio. Ma dietro la ricerca della solitudine può nascondersi l’orgoglio e il disinteresse per gli altri?



Chi ha preso alla lettera i consigli dell’abate, pur non avendolo mai letto, è un famoso yoghi indiano; per un occidentale, abituato alla dialettica serrata, tentare di comunicare con lui poteva essere un vero banco di prova. Quando nel 1990 l’ ho conosciuto praticava da 20 anni il voto del silenzio (muna). Sri Sri Sri Satchidananda , nato il 26 gennaio 1910, oltre ad essere un maestro di hata yoga, era un bakti; la sua vita spirituale passava attraverso l’amore e la devozione per tutti gli esseri viventi. Ora potrebbe avere 100 anni, ma anche di più, visto che a quei tempi non esisteva un’anagrafe e i bambini venivano registrati dai genitori dopo mesi o addirittura dopo anni.

Mangiava pochissimo, poche mele e arance al giorno. Diceva:” Il cibo è un’abitudine, non una necessità”. Conservava all’epoca, nonostante l’età, un’agilità e una forza fisica incredibile. Comunicava con i suoi discepoli con gli occhi, con i gesti e , quando era necessario, con parole scritte su un quaderno. Accanto a lui una delle figlie adottive, Sathyavathi Dirisana, che gli faceva da assistente, segretaria e interprete. Lo abbiamo incontrato a Roma – era la prima volta che veniva in Europa - e parlare con lui è stato un vero problema , bisognava tradurre le domande dall’italiano all’inglese e dall’inglese in hindi; lui rispondeva scrivendo sul quaderno e la giovane figlia adottiva traduceva il suo pensiero in inglese. Se da vent’anni praticava il silenzio, dallo stesso periodo sembra non si tagliasse i capelli, lunghi metri, che portava raccolti intorno alla testa come un insolito turbante.

Nel 1992, durante un viaggio nel Sud dell’India, ho voluto rivederlo. Non avevo il suo indirizzo ma il tassista non ebbe difficoltà a condurmi da lui, segno della sua enorme popolarità. L’ho incontrato nella sua casa, alla periferia di Madras, da dove si muoveva raramente, isolato dal mondo, senza telefono. Un piccolo e spoglio appartamento con terrazza, dove tutte le mattina alle 5 insegnava hata yoga ai suoi discepoli. Vestiva come il Mahatma Gandhi, con un semplice telo di seta attorno ai fianchi. Il resto della giornata lo passava pregando. Sempre in perfetta forma, si fece fotografare in alcune difficili posizioni di hata yoga.

A chi gli chiedeva il perché di una scelta di vita così rigorosa rispondeva:” La parola ci separa, il silenzio ci unisce. Dobbiamo imparare a comunicare con l’anima. Il silenzio è Dio.” Lo stesso concetto che esprimeva nel 1771 l’abate Dinouart.


venerdì 12 marzo 2010

Il miracolo di Giovanni Paolo II


Giovanni Paolo II aveva la capacità, che hanno i santi, di sentire la sofferenza degli altri. Molti anni fa, in uno dei tanti periodi bui della mia vita, vivevo da nove mesi con un dolore continuo al cuore. Mi alzavo con il dolore, lavoravo con il dolore, mi addormentavo con il dolore, sognavo sogni dolorosi e mi svegliavo con le lagrime. Mi sembrava di impazzire e invano cercavo di concentrarmi sul lavoro. Un giorno un gruppo di colleghi venne ricevuto dal Pontefice nella canonica della Chiesa che si trova vicino alla sede della Rai, in via Teulada.

Vivevo un periodo di grande scetticismo religioso, di grande diffidenza verso questo papa polacco, che giudicavo conservatore e integralista. Stavo male e stavo in piedi da più di un’ora, ero nervosa e irritata. Finalmente il papa arrivò e cominciò a stringere la mano ad ognuno di noi. Io ero alla fine del semicerchio. Mi limitai a fare un breve inchino porgendogli la mano; lui la strinse con forza e continuava a stringerla mentre stava già salutando il collega che era dopo di me. Sul momento non capii. Mi sembrò soltanto inspiegabile il suo comportamento. Più tardi mi resi conto che il dolore che mi aveva tormentato per nove mesi era scomparso.

Non avevo fede, pensai, eppure lui aveva preso su di sé il mio dolore. Un’esperienza simile, quella di essere sollevata dalla sofferenza, l’avevo avuta pochi mesi prima accanto a Madre Teresa di Calcutta, ma era durata soltanto il tempo in cui ero rimasta vicino a lei nella cappella delle missionarie della carità al Celio, a Roma.

La mia opinione sul papa da quel giorno, ovviamente, cambiò. Ho capito che si può essere tradizionalisti ed avere un grande carisma, essere santi e sbagliare in quanto uomini. Mi sarebbe piaciuto potergli dire: “Grazie, Padre”. Durante il Giubileo del 2000 l’ho voluto rivedere, anche se da lontano. Camminava a stenti, aiutato da un bastone, sul palcoscenico della Sala Nervi in Vaticano, curvo, indomito. Dentro di lui si intuiva una grande forza, un grande coraggio, una grande passione. E rivederlo così stanco e invecchiato, ma così consapevole del suo ruolo su questa terra, mi ha fatto una grande tenerezza, mi ha commosso.


Il Cristo

Il cristianesimo fa parte della nostra cultura. La figura del Cristo è affascinante. Trovo profonde e intense le sue parole. Quando leggo i Vangeli sono sempre stupita dalla semplicità dei suoi discorsi che mirano diritto al cuore. Immagino questo giovane dallo sguardo dolce e perso, assediato dalla folla, camminare nelle stradine polverose della Giudea, fermarsi a bere un bicchiere d’acqua, mangiare un po’ di pane. Ha soltanto trent’anni ma ha nella mente una sapienza infinita e nel cuore un amore immenso. Vive sapendo di morire. Per lui non c’è alba di felicità terrena ma soltanto la tenebra oscura della prova, del sacrificio. Sale sul Golgota trascinando una croce di legno, egli sa che in quell’ultimo finale dono di sé nessuno potrà aiutarlo. E mi sembra di sentire il suo cuore battere più forte per il dolore e la stanchezza, forse anche per la paura. E mi sembra di vedere lacrime scendere dai suoi occhi. Sono gli occhi dei giovani di oggi, curiosi e impreparati.


Il dialogo interreligioso

Credo che i tempi siano maturi per un vero dialogo interreligioso. Una parte del mondo vive nella violenza, nella lotta, nella sopraffazione, nella guerra. I capi di tutte le religioni devono poter pregare insieme. Se ci sono tanti fiumi c’è un unico mare verso il quale tutti tendono. Ricordo con commozione l’incontro ad Assisi tra il papa Giovanni Paolo II e i capi spirituali delle altre religioni. È stato bello vedere il Dalai Lama accanto al Papa, gli indiani d’America pregare con un indù, un ebreo con un mussulmano. Pregare in nome della pace. Uno degli eventi più emozionanti, di grande apertura di Giovanni Paolo II. Ma l’incontro di Assisi non deve rimanere un’eccezione. Per abolire le differenze, gli odi, i fondamentalismi, gli integralismi dobbiamo far crescere l’amore.

Tibet -Incontro con il Karmapa










A Dharamsala, in India, dove vive il Dalai Lama, ho visitato nel 2000 il museo tibetano. Fotografie, video, testimonianze drammatiche sulla crudele e continua opera di cinesizzazione del Tibet. Uno sterminio lento di un popolo e di una cultura. Sono drammatiche le testimonianze di alcune suore che sono riuscite a fuggire dal Tibet attraverso la catena dell’Himalaya e il Nepal. Raccontano violenze, soprusi e torture orribili. E la comunità internazionale, condizionata da diplomazia e affari, non reagisce come dovrebbe per questa sistematica violazione dei diritti umani.

E la persecuzione religiosa continua ancora oggi in Tibet. Ma, in realtà, cosa temono i cinesi? Lo stesso Dalai Lama non parla più di indipendenza del Tibet ma di autonomia, di rispetto per la cultura e la lingua del popolo tibetano. Dal 1950, anno dell’invasione del Tibet da parte dei cinesi, che ne proclamarono subito l’annessione, si assiste a una progressiva spoliazione del territorio. Distruzione di migliaia di templi, che contenevano preziose statue, testi antichissimi, mandala, deforestazione. In trent’anni, dal 1950 al 1980, si pensa che circa due milioni di tibetani siano morti a causa dell’occupazione cinese. Molti monaci e suore sono stati incarcerati senza motivo, torturati, seviziati. Lo stesso Dalai Lama nel 1959 è stato costretto a fuggire in India, dove ha creato un governo provvisorio in esilio.

I cinesi, se con umiltà si avvicinassero al buddismo, capirebbero che non ha alcun senso distruggere una cultura e un popolo, che ha come filosofia la compassione e la non violenza. Il Buddha è una delle figure più belle della storia dell’umanità. L’Illuminato predica unicamente amore e tolleranza; afferma che si può amare soltanto se si comprende, perché non ci può essere amore senza comprensione, perché è dalla comprensione che scaturiscono la compassione e l’accettazione dell’altro, la giusta azione. È la comprensione la chiave per la nostra liberazione dal ciclo di nascite e morte.




L’incontro con il Karmapa

In tutti i miei viaggi in India mi è capitato di incontrare molti guru, persone sagge, ma una sola volta ( nel 2000) ho avuto la netta sensazione di stare di fronte a un essere perfetto, un Illuminato, un Buddha vivente.

Sto parlando del Karmapa, seconda figura spirituale dopo il Dalai Lama, il giovane dal volto bellissimo; quando l’ho incontrato, era appena fuggito dal Tibet e viveva recluso in un monastero a Dharamsala. Temevano per la sua vita e nel monastero c’erano delle guardie armate. Ero a cena con un’altra turista italiana nel ristorante frequentato da Richard Gere ( così dissero i camerieri) , quando conobbi una coppia di buddisti fiorentini. Grazie a loro e al loro maestro, che insegnava al Karmapa, fummo ricevuti: un raro privilegio. Eravamo gli unici tre italiani , all’inizio di una lunga fila di pellegrini venuti dallo Sri Lanka. Non sapevo come comportarmi. I miei amici mi dettero alcuni consigli; quando fui davanti a lui per ricevere la sua benedizione, mentre tutti chinavano la testa, io alzai il viso per ben due volte. I suoi occhi avevano uno sguardo intenso e profondo, specchio di una immensa forza interiore, il suo sorriso appena accennato era dolce e rassicurante. In lui non era percepibile nessuna umana debolezza. Un essere perfetto, un Buddha vivente; negli occhi aveva la potenza di mille soli. E toccò il mio cuore.

L’incontro con lui e i seri problemi di salute che seguirono mentre mi trovavo sola nell’ashram di swami Shivananda a Rishikesh mi lasciarono un segno profondo nell’anima. Tornando in Italia, sentii dentro di me per la prima volta che cosa vuol dire aver compassione ed empatia per tutti gli esseri viventi. Avevo ritrovato leggerezza di cuore e serenità. Purtroppo, nessuna conquista è eterna. Il frastuono della vita quotidiana, le responsabilità, il lavoro, cancellano o soffocano quel poco che abbiamo faticosamente raggiunto. Ma chi vive questo tipo di emozioni sa che sono vere e che un giorno possono ritornare.


Il XVII Karmapa, Ogyen Trinley Dorje, è nato in Tibet il 26 giugno del 1985. Da quando si è rifugiato in India vive nel monastero di Gyuto a Dharamsala. Quest’anno verrà per la prima volta in Europa per 5 settimane per un ciclo di incontri e conferenze. Visiterà nove paesi: Germania, Svizzera, Danimarca, Polonia, Francia, Gran Bretagna, Belgio, Spagna, Paesi Bassi. Il tema centrale del suo tour europeo è: “Il futuro è ora. Il messaggio del Buddha per il mondo di oggi”. Primo appuntamento il 27 maggio a Francoforte .


Kalachakra significa ruota del tempo, senza inizio e senza fine. E’ un’ iniziazione, che dona una grande energia spirituale a chi vi partecipa; è conferita dal Dalai Lama per sviluppare la bodhicitta, la compassione e la volontà di liberare tutti gli esseri umani dalla sofferenza e, di conseguenza, portare la pace e l’armonia nel mondo.


Le foto del Kalachakra, che si è svolto a Bodhgaya, in India, nel 2003, sono di Emiliano Pinnizzotto, su gentile concessione della Graffiti Press.



“Il tempo è la sostanza dalla quale mi sono fatto.

Il tempo è un fiume che mi porta avanti, ma io sono il fiume;

Si tratta di una tigre che mi divora, ma io sono la tigre;

si tratta di un fuoco che mi consuma, ma io sono il fuoco”.

Jorge Louis Borges



la posta dell'anima di Mirabai

alla ricerca della spiritualità

Mi piacerebbe affrontare molti temi con voi, temi che riguardano la nostra vita quotidiana e la nostra vita interiore. Il bisogno di spiritualità , la ricerca di Dio è presente in tutte le epoche della nostra storia e in tutte le culture. E’ come un filo sottile che corre lungo il fiume della nostra esistenza. Un filo sotterraneo di cui spesso non ne siamo consapevoli ma, a volte, riaffiora dalle profondità e le sue acque sgorgano per dissetarci. Non ho certezze, piuttosto tantissimi dubbi. Vi propongo alcune mie riflessioni ed esperienze, che spero possano aiutarvi nel cammino della ricerca.


L’esistenza di Dio

Da millenni l’uomo si pone mille interrogativi sulla sua esistenza, su Dio, sull’aldilà. E da millenni filosofi e mistici cercano una risposta. Tentare di capire l’uomo, i suoi dubbi, le sue sofferenze, è già un’impresa difficile. Ma con quale animo ci avviciniamo a Dio? È giusto tentare di svelare il suo segreto?


La preghiera

La preghiera è quel filo sottile che attraverso i millenni ha unito l’uomo al divino. In tutte le religioni esiste da sempre la figura dell’asceta che sceglie di isolarsi dal mondo per cercare nella contemplazione un dialogo diretto con L’Assoluto. Oggi, ha ancora senso questa scelta? Non si può pregare continuando a vivere nel mondo? Anzi, non è proprio la sofferenza quotidiana il nostro modo migliore di pregare?


La vocazione religiosa

La fede è un dono divino? In una società percorsa da fremiti autodistruttivi ha ancora senso oggi farsi monaco? Il monaco, nell’isolamento dell’eremo, impegna tutte le sue energie per realizzare se stesso, per santificare la sua persona. Il sacerdote, invece, è costretto dalla sua funzione pastorale a vivere tra la gente; mette la sua vita e il suo tempo a disposizione del popolo di Dio. Il sacerdote e il monaco hanno entrambi gli stessi voti di castità, povertà e umiltà. Ciò che distingue le due vocazioni religiose, quindi, sta proprio nel vivere questa scelta in solitudine o in mezzo agli altri.

Chi sceglie la vita monastica preferisce la solitudine dell’eremo al contatto continuo e contaminante con la vita. La meta è la propria santificazione. Questa può diventare più importante dell’amore e della carità per il prossimo. Non c’è il rischio, in queste condizioni, di alimentare l’ego, l’orgoglio spirituale?

Avalokiteshvara, il bodhisattva per eccellenza del buddismo mahayanico, è il realizzato che sceglie di reincarnarsi e di tornare sulla terra unicamente per aiutare gli altri esseri viventi. Egli ama tutti come fossero suoi figli. La compassione è la molla che lo spinge ad abbandonare la sua pace e la sua felicità personale per condividere le sofferenze degli altri.


Dio sceglie tutti?

Nella vita di tutti i giorni possiamo incontrare persone che hanno la fortuna di avere la fede; poi ci sono gli atei che non si pongono il problema e, infine, quelli che sono a metà del guado: vorrebbero tanto sentire questa “chiamata interiore” ma non la sentono. Queste persone soffrono perché vorrebbero avvicinarsi a Dio, avvertono un impulso interiore, ma si sentono soli e abbandonati perchè non arriva nulla a scaldare il loro cuore. A volte l’angoscia è così forte che toglie il respiro, altre volte è la rabbia che scuote il corpo, oppure è lo sconforto e la passività a prendere il sopravvento. Come se non ci fossero più lacrime per piangere, in attesa di una risposta che non arriva.

Vuol dire che queste persone non riescono a farsi sentire da Dio, o che Dio è sordo, disattento, troppo occupato a gestire l’Universo per rispondere? Oppure, più semplicemente, che Dio non esiste perché è soltanto una nostra creazione, la proiezione di un nostro desiderio spirituale, un nome per coprire un vuoto che ci spaventa?

“Dove ti sei nascosto, Amato, abbandonando me gemente? — scrive san Giovanni della Croce —. Come il cervo fuggisti, dopo avermi ferita; uscii invocandoti e te n’eri andato”.

Ma è Dio che sceglie gli uomini o sono gli uomini che scelgono Dio? Se non si è scelti non si fa parte della classe degli eletti . E se è Dio che sceglie gli uomini come non sentirsi frustrati, dimenticati, non amati? E l’insicurezza può generare violenza, odio, fanatismo. I fondamentalisti non amano Dio, quel Dio che invocano prima di una strage. Dio, se esiste, non può che essere simbolo di pace e amore.