domenica 9 maggio 2010

Ranchi e la visione di Yogananda



Nell’ ottobre del 1990 ho visitato l’ ashram di Yogananda a Ranchi, nel Bihar, nulla a che vedere con l’ashram americano di Encinitas sull’Oceano Pacifico. Dalla raffinata eleganza americana ero passata alla spartana semplicità indiana. La stanza dove dormivo era povera, disadorna, essenziale. Il letto di legno aveva una rete per le zanzare. Non c’erano vetri alle finestre. Pioveva in continuazione, il caldo umido dei monsoni era insopportabile. Durante la notte avevo problemi di respirazione. Mancava spesso l’ elettricità, era impossibile fare una doccia. Così, dopo due giorni, decisi di trasferirmi in un albergo vicino alla ferrovia, dieci minuti a piedi dall’ashram. Ogni mattina mi recavo all’ashram e la sera tornavo a dormire in albergo.


Durante il soggiorno parlai con swami Bhavananda Giri, un americano trapiantato in India: "Dio è con te- mi disse - è inutile cercarlo fuori. Se l’India ora ti appare diversa è perché tu sei diversa. Amare Dio sempre, lavorare pensando a Dio: questo significa meditare sempre. Le malattie, i problemi, sono una benedizione di Dio, ci costringono a stare più vicini a lui, a distaccarci dal mondo.” Un concetto, ripetutomi da altri, su cui non sono mai stata d’accordo. Perché Dio vorrebbe vedermi soffrire?

Passeggiavo spesso in giardino tra giganteschi e colorati cespugli di lantane. All’interno dell’ ashram c’era una piccola tipografia , dove ho comprato libri e cassette. Durante le mie passeggiate incontravo spesso una bambina che portava sulle spalle il fratellino più piccolo,viveva tutto il giorno con questo peso sulle spalle. Per farla giocare le regalai carta e matite. La seguivo mentre camminava con il suo pesante fardello, una specie di emanazione del suo corpo, a cui non faceva più caso.


Un pomeriggio andai a pregare nella stanza dove meditava Yogananda. E successe una cosa strana. Stavo seduta per terra nella posizione del mezzo loto, avevo gli occhi chiusi, a un certo punto sentii il mio corpo girare velocemente su sé stesso in senso rotatorio, come una trottola. Non riuscivo a capire cosa stesse accadendo, il movimento era una forte distrazione, così, invece di lasciarmi andare e affidarmi alla magia dell’inesplorato, aprii gli occhi e il mio corpo si fermò.


Un altro episodio insolito mi accadde qualche giorno dopo. Come sempre passavo il mio tempo libero passeggiando nel giardino. Vicino a un grosso albero c’è una foto di Yogananda su una lapide di marmo, la stessa foto che appare sulla copertina dell’Autobiografia di uno Yoghi. Camminando arrivai davanti a un edificio basso. Da una finestra si vedevano molti ragazzi, vestiti di bianco, chini a studiare. Di spalle, davanti alla finestra, c’era un uomo dai lunghi capelli neri con l’abito arancione degli swami. Come se avesse avvertito la mia presenza lo swami si girò. Mi fissò per alcuni secondi poi tornò nuovamente di spalle. Era Yogananda. Non cercai spiegazioni razionali, mi dissi soltanto che nell’ashram avevo visto un solo swami vestito di arancione, l’ americano Bhavananda Giri, e molti bramachari vestiti di bianco.


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