lunedì 3 gennaio 2011

Il prete operaio

Le istituzioni, in genere, amano il potere. La Chiesa cattolica, nel passato ma ancora oggi, è vicina a chi comanda, anche se per fortuna ci sono lodevoli eccezioni. In America Latina le gerarchie ecclesiastiche sono state quasi sempre dalla parte della dittatura, mentre il monaco e il prete si sono schierati con gli oppressi. In Italia, per decenni, durante la messa domenicale i parroci davano indicazioni precise per chi votare. E questa abitudine, purtroppo, non è cambiata molto.


Coloro che decidono di entrare nei palazzi del potere, anche se religiosi, dovrebbero rappresentare gli interessi del popolo. Un prete può dare un suo contributo spirituale, umano, culturale perché si governi in modo giusto e pulito tutelando gli interessi dei più deboli. Nel terzo millennio non si può continuare a discutere se un monaco debba stare nell’eremo o può impegnarsi nella vita. Per modificare questa società violenta c’è bisogno di tutti. Non si può scegliere l’isolamento, in nome di una via individuale alla spiritualità, mentre nel mondo c’è sofferenza. Può sembrare una scelta egoistica. Così non capisco la rigidità dei monaci che vivono sul Monte Athos dove le donne non possono nemmeno avvicinarsi.


Amo la figura del bodhisattva che sceglie di tornare sulla terra, unicamente per aiutare gli altri a progredire spiritualmente: la via dell’amore per il prossimo. Ha senso chiudersi in se stessi? Nella mia vita, a volte, anch’io ho sentito il desiderio di fuggire, di isolarmi per non soffrire e per non veder soffrire. Un convento, un ashram, sono pur sempre zone protette dai mali del mondo; ma spesso, il soffio della vita entra inaspettatamente tra le fessure delle porte e gela il cuore.

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