Muna- il voto del silenzio - Sri sri sri Satchidananda
La nostra civiltà è una civiltà che non ama il silenzio. Si tende a riempire ogni spazio della propria vita con parole, musica, rumori. L’inquinamento acustico e le vuote parole sono usati come barriere, per impedirci di ascoltare noi stessi e gli altri. Nel libro L’arte di tacere, edito da Sellerio, l’Abate Dinouart fa l’esegesi del silenzio e dà un consiglio: “Desiderare fortemente di dire una cosa, è spesso motivo sufficiente per decidere di tacerla”.
L’ansia, l’angoscia, le nevrosi di oggi scatenano fiumi di parole, ma l’opposto non è la clausura. L’abate Dinouart fa notare che il saggio conosce l’arte del tacere senza per questo chiudersi agli altri; sa essere riservato senza per questo essere taciturno. Egli parla con il volto, specchio dell’anima. E l’abate termina il suo libricino, scritto nel 1771, con un’altra esortazione: “ Spesso si scrive male, talvolta si scrive troppo, non sempre si scrive abbastanza”. Soprattutto si scrivono cose inutili, non meditate.
Il silenzio, quindi, porta con sé il concetto della solitudine. Il silenzio come atto di ascoltare la natura, l’anima, Dio. Ma dietro la ricerca della solitudine può nascondersi l’orgoglio e il disinteresse per gli altri?
Chi ha preso alla lettera i consigli dell’abate, pur non avendolo mai letto, è un famoso yoghi indiano; per un occidentale, abituato alla dialettica serrata, tentare di comunicare con lui poteva essere un vero banco di prova. Quando nel 1990 l’ ho conosciuto praticava da 20 anni il voto del silenzio (muna). Sri Sri Sri Satchidananda , nato il 26 gennaio 1910, oltre ad essere un maestro di hata yoga, era un bakti; la sua vita spirituale passava attraverso l’amore e la devozione per tutti gli esseri viventi. Ora potrebbe avere 100 anni, ma anche di più, visto che a quei tempi non esisteva un’anagrafe e i bambini venivano registrati dai genitori dopo mesi o addirittura dopo anni.
Mangiava pochissimo, poche mele e arance al giorno. Diceva:” Il cibo è un’abitudine, non una necessità”. Conservava all’epoca, nonostante l’età, un’agilità e una forza fisica incredibile. Comunicava con i suoi discepoli con gli occhi, con i gesti e , quando era necessario, con parole scritte su un quaderno. Accanto a lui una delle figlie adottive, Sathyavathi Dirisana, che gli faceva da assistente, segretaria e interprete. Lo abbiamo incontrato a Roma – era la prima volta che veniva in Europa - e parlare con lui è stato un vero problema , bisognava tradurre le domande dall’italiano all’inglese e dall’inglese in hindi; lui rispondeva scrivendo sul quaderno e la giovane figlia adottiva traduceva il suo pensiero in inglese. Se da vent’anni praticava il silenzio, dallo stesso periodo sembra non si tagliasse i capelli, lunghi metri, che portava raccolti intorno alla testa come un insolito turbante.
Nel 1992, durante un viaggio nel Sud dell’India, ho voluto rivederlo. Non avevo il suo indirizzo ma il tassista non ebbe difficoltà a condurmi da lui, segno della sua enorme popolarità. L’ho incontrato nella sua casa, alla periferia di Madras, da dove si muoveva raramente, isolato dal mondo, senza telefono. Un piccolo e spoglio appartamento con terrazza, dove tutte le mattina alle 5 insegnava hata yoga ai suoi discepoli. Vestiva come il Mahatma Gandhi, con un semplice telo di seta attorno ai fianchi. Il resto della giornata lo passava pregando. Sempre in perfetta forma, si fece fotografare in alcune difficili posizioni di hata yoga.
A chi gli chiedeva il perché di una scelta di vita così rigorosa rispondeva:” La parola ci separa, il silenzio ci unisce. Dobbiamo imparare a comunicare con l’anima. Il silenzio è Dio.” Lo stesso concetto che esprimeva nel 1771 l’abate Dinouart.
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