Per alcuni mesi ho continuato ad andare una o due volte alla settimana in ospedale per trovare X che , nel frattempo, era stato spostato in un altro reparto, non avendo più bisogno dell’attrezzatura della rianimazione. Era ancora in coma , immobile, sembrava non capire e sentire ciò che accadeva intorno a lui. Ma forse non era vero, ho percepito una minima presenza vigile. Quando l’infermiera pronunciava il suo nome accennava a girare un poco la testa. Nel letto accanto al suo, c’era un ragazzino, anche lui in coma , con gli occhi persi nel vuoto che guardavano lontano, ma sembrava capire. Aveva il cancro allo stadio finale, il ventre gonfio. Mi stringeva forte la mano ogni volta che lo salutavo. Avevo fatto amicizia con la mamma, che era sempre accanto a lui e gli parlava. Ci vediamo mercoledì prossimo alle 15, gli dissi un giorno andando via.
Questo continuo andare in ospedale cominciava a pesarmi: il lavoro, la casa, il figlio, la salute malferma. Arrivò il mercoledì previsto per la visita, ma ero troppo stanca, non ce la facevo più e, sia pure combattuta per la promessa fatta, decisi di saltare l’appuntamento. Dopo alcuni giorni tornai in ospedale e trovai il letto del ragazzino vuoto. Chiesi notizie all’infermiera: mi disse che era morto quel mercoledì alle 15, proprio il giorno e l’ora in cui sarei dovuta andare. Forse aveva atteso il mio arrivo per salutarmi un’ultima volta. Mi ripetevo: sono stata una egoista. E su di me calò, come una mannaia, un profondo senso di colpa.