“Fin quando respiri la libera aria della terra, hai l’obbligo di servire con animo grato”, diceva Sri Yukteswar. Eppure la maggior parte delle persone vive ripiegata su se stessa, insensibile al dolore degli altri. Spesso non si chiede aiuto per timidezza, per non disturbare, per non apparire inopportuni o soltanto perché l’altro è disattento, avvolto su se stesso. La vera compassione, la vera empatia del bodhisattva è vivere con l’altro, vivere nell’altro, vivere la sua sofferenza. Direi che anche tra i religiosi questa capacità è estremamente rara. Chi pratica il Kriya Yoga dovrebbe aver affinato questa sensibilità, ma se non è abbastanza forte finisce per caricarsi sulle spalle i problemi degli altri senza essere in grado di aiutare nessuno.
Quale è il segno della santità? Forse quello di guardare coloro che camminano dietro di noi, che arrancano, piagati dai mali della vita. Dovremmo imparare a dare una mano più spesso, soprattutto se si è intrapreso il cammino della spiritualità. Ma, a volte, si può essere talmente protesi verso la propria santità da guardare sempre in alto e ignorare coloro che in basso, su questa terra, sono immersi nel fango e piangono.
Paramahansa Yogananda, un giorno, viaggiando con i suoi discepoli chiese improvvisamente di fare una deviazione. Seguendo le sue indicazioni arrivarono in un posto dove viveva un uomo disperato. Yogananda era così in sintonia con l’universo da sentire il richiamo di dolore di quell’uomo.
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