In uno dei miei viaggi in India, avevo fatto tappa a Bodh Gaya, dove è venerato l’albero sotto il quale Gautama Siddharta ottenne l’illuminazione nel 528 avanti Cristo. Ricordo una bella immagine: alcune monache buddhiste raccoglievano con umile devozione tutta l’erba cresciuta tra gli intarsi del muro. Riuscii a portarmi a casa una foglia, che ora è incorniciata, accanto ad altre immagini del Buddha, nella mia camera da letto. Sono entrata nel tempio, dove in quel momento per fortuna non c’era nessun turista, per una breve meditazione. E quando sono uscita un monaco, che era di guardia alla porta, incuriosito, si è avvicinato chiedendomi come mai meditassi e dove alloggiassi.
Mi ha proposto di visitare visitare l’ashram, che ha una guest house, poi mi ha offerto del tè nella sua stanza e, prima di salutarmi, mi ha detto: “Scrivimi, ti raggiungerò a Varanasi; faremo un po’ del viaggio insieme”. Forse ho soltanto male interpretato le sue parole gentili, ma il suo sguardo e i suoi gesti ambigui sembravano confermare i miei dubbi. Ovviamente, mi sono ben guardata dal comunicargli i miei spostamenti successivi. Dagli uomini comuni non pretendo l’ascetismo- siamo tutti fragili creature- ma da chi fa meditazione da molti anni non accetto un comportamento quanto meno equivoco.
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