Brother
Sattvananda risponde alla domanda di un devoto che chiede chiarimenti sul significato di Maya, raccontando la storia
di Krishna e di un suo giovane discepolo.
Dopo aver camminato a lungo nella foresta
Krishna e il discepolo si fermano
sotto un albero per riposare. Il discepolo chiede a Krishna: “Che cos’è Maya?”.
Krishna sorvola sulla domanda e prega il giovane di portargli un po’ d’acqua da bere. Il discepolo corre nel
villaggio più vicino per soddisfare il desiderio del suo guru. Trova una casa e un contadino al quale chiede
l‘acqua. Il contadino chiama la figlia e le ordina di portare l’acqua al
monaco. Il giovane monaco affascinato dalla bella ragazza, dimenticando completamente ciò che aveva promesso a
Krishna, decide di fermarsi nel
villaggio. Passano gli anni, il
giovane ha sposato la ragazza, è padre di due figli, è felice con la sua
famiglia. Un giorno arriva
improvviso e violento un uragano che distrugge tutto. Il giovane perde la casa,
gli animali, cerca di salvare la moglie e i figli ma invano, la potenza delle acque gli porta via
tutto. Rimasto solo e disperato vaga nella foresta finchè sotto lo stesso
albero, dove l’aveva lasciato molti anni prima, incontra Krishna che gli
chiede: “Non dovevi portarmi l’acqua?”. “Perdonatemi,” supplica il giovane.
“Non mi serve più”, risponde Krishna. E il discepolo: “Ho capito il significato
di Maya”.
La vita è una
provocazione continua. I problemi vanno accettati e superati. Aiutano a
progredire nel cammino spirituale.
Non diamo per scontato quello che abbiamo. Siamo grati a Dio
per i privilegi che abbiamo. Il
desiderio di Dio è già un buon punto di partenza, poi servono volontà e disciplina. La devozione cresce con il
desiderio di Dio, che si alimenta con la meditazione. Ci vuole disciplina nel fare gli esercizi, bisogna creare l’abitudine agli
esercizi e alla meditazione. Se durante la meditazione si raggiunge la pace,
allora rimanete in quella pace.
Nel silenzio. Assaporate la pace nel silenzio.
Non è necessario che i gruppi SRF crescano di numero ma
nella qualità. Il Maestro raccontò una sua visione:” Ero in una grande
cattedrale piena di gente dove non si percepiva la presenza di Dio, poi ero
sotto un albero con un piccolo gruppo di discepoli e lì era forte la presenza
di Dio. La Madre Divina mi chiese: “Cosa
vuoi?”. Yogananda rispose: “Il piccolo gruppo”.
Se facciamo un lavoro che non ci piace, dobbiamo accettarlo.
Dobbiamo farlo come servizio, senza attaccamento poi, con il tempo, possiamo
cercare di migliorare la nostra posizione, scegliendo un lavoro che ci piace di
più. Servire Dio nella città dove siamo nati, anche se non ci piace.
Per diventare un monaco SRF il percorso
è molto lungo: 2 anni di
postulato, poi tre anni di noviziato, poi un lungo periodo di brahmachari,
infine il voto definitivo. Anche noi monaci abbiamo i nostri demoni interiori.
Il percorso è lungo, a tappe, così, se non si è pronti, si può tornare indietro
in qualsiasi momento. E’ auspicabile affrontare il monacato con esperienze alle
spalle. E’ una scelta che deve
maturare dentro di noi, con convinzione.
Se cerchiamo Dio, vuol dire che nelle vite precedenti
abbiamo maturato questo desiderio. Non sprechiamo questa vita inseguendo Maya.
E’ sempre la sofferenza che ci porta a intraprendere il cammino spirituale. Se
abbiamo il desiderio di meditare, ma poi decidiamo di fare qualcos’altro, vuol
dire che il desiderio di quell’
altra cosa era più forte. In questo caso ci deve aiutare il senso del dovere e
il rispetto che dobbiamo al Guru per le promesse fatte una volta preso il Krya.
Se in questa vita abbiamo scelto di creare una famiglia non dobbiamo trascurare coniuge e
figli per meditare. E’ necessario trovare la giusta armonia tra Dio e i doveri
familiari. Se è rimasto in noi da una vita precedente il desiderio di meditare,
ma in questa vita abbiamo creato una
famiglia, abbiamo il dovere di essere dei genitori presenti e amorevoli.
Brother Sattvananda racconta la storia di Yogananda al quale
era stato regalato un cappotto molto costoso e un cappello. Il Maestro diceva:
le mie preoccupazioni sono nate con questo cappotto. Si può macchiare,
rovinare. Pregava: Signore, perché non te lo riprendi? Così,un giorno, in
occasione di una conferenza, lasciò il cappotto al guardaroba della sala e
svuotò le tasche, per precauzione. Al ritorno trovò solo il cappello, il cappotto era stato
rubato. Yogananda: “Signore, perchè non ti sei ripreso anche il cappello?”
Daya Mata:” E’ difficile pensare a Dio mentre stai
lavorando”. Yogananda : “Avevo anch’io questo problema”.
Un giorno Yogananda era talmente assorto nel suo lavoro che
aveva dimenticato di mangiare
e ogni tanto qualcuno andava a supplicarlo di prendere qualcosa e
Yogananda rispondeva: “La mia mente è troppo presa dal lavoro”. “Maestro è rimasta un po’ di torta di ieri”. E lui chiese: “Che
tipo di torta è?”. “Torta di mele”.” Ok,
la prendo”. Brother Sattvananda cita questo episodio per sottolineare che anche il guru, pur nella sua trascendenza,
conservava un aspetto molto umano.
L’ “Autobiografia di uno Yogi” è un libro molto bello,
scritto bene, capace di catturare il lettore per la sua grande
umanità. Mostra le irrequietezze di Yogananda da
giovane. Così anche noi
possiamo dire:“Ce la posso fare
anch’io”.
Pensare: ”Il
guru non è mai soddisfatto di me” è un’idea sbagliata, alimenta il nostro
complesso di colpa. Noi dobbiamo fare del nostro meglio, dopo ci penserà Lui.
L’umanità del Guru ci collega a Dio.