La coscienza si basa su due funzioni: la consapevolezza e
la conservazione dei frutti
dell’esperienza (la memoria). La coscienza come deposito dell’esperienza
supera di molto la coscienza come consapevolezza. Mentre la seconda è momentanea e più o meno limitata ad un
oggetto, la prima è universale e non è influenzata dal tempo. Nella coscienza
profonda o conoscenza-deposito
vengono conservate non soltanto le esperienze della vita attuale ma
anche quelle dei nostri antenati, procedendo a ritroso nell’infinità del tempo
e dello spazio. Questa è la coscienza universale.
La coscienza è un flusso vivo, non può essere catturata
nell’angusto ricettacolo dell’ego, perché la sua natura è quella del movimento,
del fluire; e flusso significa continuità nonché la relazione fra due livelli o
due poli.
La coscienza superiore è il prodotto delle più ampie serie
di esperienze: l’ampiezza fra i
poli dell’universalità e dell’individualità.
Quando l’individualità perde così la sua relazione conscia con l’universalità e
cerca di diventare un fine in se stessa aggrappandosi all’esistenza momentanea,
si crea l’illusione di un ego separato e immutabile, il flusso è arrestato e
inizia la stasi. Il rimedio non è la soppressione dell’individualità ma la
comprensione del fatto che l’individualità non è lo stato dell’ego e che il
cambiamento, che è uno stato naturale e necessario della vita, non è arbitrario
o senza significato, ma procede secondo una legge inerente e universale.
La soppressione dell’individualità può condurre soltanto a
uno stato di completa indifferenza e dissoluzione, che può essere una liberazione dalla sofferenza, ma in
modo puramente negativo, perché ci priva della suprema esperienza a cui sembra
puntare il processo di individuazione: l’esperienza della perfetta illuminazione o buddhità in cui si realizza l’universalità del nostro essere.